Intervento introduttivo all’Assemblea Nazionale di Movimento Democratico
Roma, Teatro Eliseo
L’Italia è un Paese stanco, che da troppi anni ha perso la capacità di guardare con ottimismo al proprio futuro. Di immaginare che, se ci impegniamo seriamente e investiamo sulle nostre straordinarie risorse, domani andrà meglio di oggi. Se c’è qualcosa che ci deve preoccupare, a differenza di altri frangenti della travagliata storia politica degli ultimi decenni, non è tanto il serpeggiare di un forte sentimento di anti‐politica, ma il diffondersi di una strisciante apatia verso la politica, di una sfiducia generalizzata verso la possibilità che dalla politica possano arrivare le risposte di cui l’Italia ha bisogno. E questo sentimento sempre più diffuso, come in una profezia che si auto‐avvera, finisce per generare cattiva politica. Perché politici che non si sentono controllati, pensano di poter fare quello che vogliono al riparo dell’apatia dei più. E perché la selezione della classe politica si impoverisce, quando le risorse migliori delle nuove generazioni non vedono nell’impegno politico un’alternativa allettante, anche solo per un periodo della loro vita.
Si avvertono tutti i sintomi di un Paese che ha perso la capacità e, a volte, la voglia di crescere. Personalmente, non credo che i momenti di crisi economica siano politicamente favorevoli al centrosinistra, perché, si dice, aumentano la domanda di politiche redistributive. Penso il contrario. Per dirla con l’economista Benjamin Friedman: “Quando una società attraversa un periodo di stagnazione (…) si ferma il progresso nella mobilità sociale, nella solidarietà, nella tolleranza e nella democrazia e ne consegue una fase in cui ognuno si mette in trincea a difendere il proprio interesse”.
E quando vince l’egoismo (anche il sano egoismo che ognuno di noi ha nei frangenti difficili), quando calano tolleranza e voglia di apertura, curiosità verso gli altri e verso il futuro, le democratiche e
i democratici non hanno vita facile.
Se mi capitasse di incontrare un economista extraterrestre, che mi chiedesse a bruciapelo qualche statistica per inquadrare la situazione italiana, credo che lo rimanderei a tre dati, a tre fonti di comparazione internazionale.
1) le statistiche OCSE sulla crescita della produttività. Che mostrano come, dal 1994 al 2008, nell’arco di tempo della cosiddetta Seconda Repubblica, l’Italia sia stata il fanalino di coda dei paesi OCSE sia come crescita del reddito prodotto, sia come crescita della produttività. Per cui, per produrre il miglioramento delle condizioni di vita che altri paesi raggiungono in 20‐25 anni, l’arco biologico di una generazione, agli italiani occorre un secolo, quattro generazioni;
2) lo studio OCSE sulle disuguaglianze economiche. Che mostra come la disuguaglianza economica (relativa) sia cresciuta nel corso degli anni ’90, portando l’Italia dalla media OCSE a livelli di gran lunga maggiori;
3) i dati “Credit Suisse” sulla ricchezza delle famiglie. Che mostrano come l’Italia sia nei primi posti della classifica internazionale della ricchezza privata detenuta dalle famiglie, con la percentuale più alta di famiglie al di sopra dei 100.000 dollari (il 56%) tra i paesi sviluppati.
Crescita, produttività e investimenti che stagnano.
Disuguaglianza che cresce.
Ma anche ricchezza che resta a livelli da hit parade internazionale.
Sono tutti segni di quello che potremmo chiamare un lento declino, se volete un “dolce declino”. In fondo, grazie alla bellezza della nostra storia e geografia, al miracolo dello sviluppo economico nel secondo dopoguerra, e – confessiamocelo – al debito pubblico (che ha lasciato lo stato povero, ma molte famiglie italiane relativamente ricche), in Italia si vive bene. Dati i livelli di reddito raggiunti, possiamo mandare avanti la baracca e goderci il quieto vivere per altri decenni. Accettando, in cambio, che risorse preziose non vengano valorizzate come meriterebbero. E che le famiglie che non hanno accumulato ricchezza siano le prime a scivolare sotto la soglia di povertà. È il piano inclinato di un declino lento, poco percepibile, finché i suoi effetti saranno così diffusi che sarà impossibile ignorarli.
In queste condizioni, è molto difficile anticipare i tempi, cambiare rotta prima che sia troppo tardi. Ma questo è il compito che ci aspetta. Che aspetta la politica.
Insomma, altro che crisi finanziaria internazionale: i nostri problemi non nascono oggi e sono tutti nostri. Basta con i capri espiatori: la globalizzazione con il pericolo cinese e gli immigrati che rubano posti di lavoro a destra; il liberismo selvaggio e gli squilibri dell’economia di carta inventata da avidi e potenti speculatori a sinistra. Niente affatto. Di una cosa possiamo essere sicuri: i nostri problemi – come il declino del sistema educativo e la stagnazione degli investimenti – siamo bravi a crearceli da soli.
Un’altra conseguenza di questa analisi è che diventa un po’ puerile addossare tutte le responsabilità al governo di centrodestra di turno, quando molti problemi partono da lontano e noi non siamo stati capaci di aggredirli quando avremmo potuto (nonostante il centrosinistra sia stato al governo per ben 7 dei 16 anni della Seconda Repubblica, più del 40%). La credibilità delle nostre proposte – specialmente agli occhi degli elettori meno ideologizzati, meno fidelizzati, che guardano con laicità alle opzioni politiche in campo – si nutre anche della credibilità della nostra visione del Paese quando siamo all’opposizione. Per una forza politica, il tempo passato all’opposizione non è una sorta di ricreazione dove tutto è permesso; è un momento importante in cui cementi il tuo rapporto con il Paese e costruisci il tuo progetto di governo.
E veniamo al progetto politico.
Far ripartire la crescita economica, rimescolare le opportunità e ridurre le disuguaglianze: devono essere queste le priorità del progetto democratico.
Per farlo serve più coraggio. E serve più Italia.
Serve più coraggio politico innanzitutto, perché le riforme che servono al Paese può farle solo un partito credibile nelle sue proposte. Un partito che non ha paura di infrangere tabù ideologici duri a morire e di pestare i piedi a interessi costituiti (anche interessi costituiti forti nella propria area di rappresentanza), se questo è quello che serve al Paese.
E serve più Italia, perché all’Italia dobbiamo parlare, e in Italia dobbiamo individuare, mobilitare e rendere partecipi del nostro progetto quelle energie del merito, del bisogno e dell’impegno che sono le prime che hanno da guadagnare dal cambiamento, dal superamento dello status quo.
Le politiche per sbloccare l’Italia, in buona parte le conosciamo: sono quelle che alcuni di noi hanno chiamato le “riforme dei riformisti” (dal mercato del lavoro alla scuola, dalle liberalizzazioni agli investimenti in capitale umano). Il problema è passare dalle politiche alla politica.
Ed è un problema perché non è facile fare in concreto quello che dobbiamo fare: selezionare.
Dobbiamo selezionare le risorse economiche e sociali, aprendo molti mercati, settori e professioni alla concorrenza, affinché le risorse disponibili vadano laddove sono più produttive. Lasciando fare al mercato questa opera di selezione laddove sa farla bene. E facendola noi laddove non può farlo, come nell’istruzione e nell’università, dove servono politiche che diffondano la cultura della valutazione e della meritocrazia.
E questo ovviamente non è facile. Perché ci sono professioni pronte a fare le barricate per difendere barriere all’entrata. Perché ci sono rappresentanze datoriali e sindacali che chiedono più politiche industriali discrezionali, dove la politica scelga i settori più innovativi su cui bisogna investire. Perché ci sono banche che concedono, e sindacati che approvano, accordi in cui i pre-pensionamenti vengono gestiti garantendo corsie preferenziali ai parenti degli ex dipendenti nelle nuove assunzioni. Tutte cose che non garantiscono che le risorse vadano a chi le merita, laddove sono più produttive.
Ma dobbiamo anche selezionare le politiche pubbliche, perché se vogliamo aiutare chi resterà indietro, non possiamo permetterci di dare tutto a tutti. Dobbiamo spiegare che i diritti sociali, i diritti materiali, hanno un costo e per questo, a differenza dei diamanti (e dei diritti politici e civili), non sono per sempre; è compito della politica, di volta in volta, indicare le priorità: quali interessi sono meritevoli di tutela e quali sono chiamati a farcela da soli. Sullo stato sociale, c’è una strana alleanza tra il conservatorismo di chi agisce da stanco custode delle priorità e degli strumenti dettati dalla politica di ieri, e il liberismo di chi chiede alla politica di fare un passo indietro definitivo rispetto al domani, semplicemente tagliando le politiche sociali. Entrambi tolgono alla politica il compito di ridisegnare le priorità.
Ma se queste priorità, noi democratici, vogliamo ridisegnarle davvero, dobbiamo essere credibili (e coerenti) in quello che proponiamo e facciamo. Possiamo organizzare mille convegni in cui parliamo del problema della precarietà delle giovani generazioni, ma se poi, quando andiamo al governo e ci sono due spiccioli da spendere, li usiamo per abolire lo scalone previdenziale e aiutare generazioni già ampiamente tutelate dal nostro sistema di welfare, senza fare niente per la riforma degli ammortizzatori sociali per i lavoratori flessibili: la nostra credibilità subisce un duro colpo.
Se qualcuno della mia generazione, in una discussione sull’innalzamento dell’età pensionabile, sente parlare di diritto acquisito alla tutela del rischio vecchiaia, ha come reazione istintiva, per usare un eufemismo, un sorrisetto sconsolato, una scrollata di spalle. Per intere generazioni l’età pensionabile è un concetto inafferrabile: quando arriverà il loro turno, infatti, quale che sarà l’età pensionabile sul piano legale, dovranno continuare a lavorare, perché il combinato disposto di metodo contributivo e basse dinamiche salariali all’inizio della carriera (anch’esse figlie del dualismo del mercato del lavoro) le avrà portate a maturare una pensione troppo bassa. Perché, allora, non chiedere un sacrificio a chi si sta avvicinando alla pensione adesso per finanziare la protezione universalistica del reddito dei lavoratori flessibili?
A sinistra, si agita spesso (a volte giustamente, a volte meno) la retorica dei diritti. Secondo me, il grande crimine dell’immobilismo degli ultimi decenni, dell’incapacità di fare le riforme che servivano al paese, è quello di aver privato intere generazioni del diritto a sognare. A sognare che se mi impegno a fondo e investo su me stesso, sulle mie capacità e sulle mie aspirazioni, ho una possibilità di farcela, indipendentemente dalle amicizie, dalle risorse di partenza della mia famiglia, dalla fedeltà al cavallo giusto. E sapendo anche che, se non ce la faccio, c’è una rete di sostegno, un sistema di welfare universalistico che mi aiuterà a rialzarmi e costruire una seconda chance. Perché se non è così, va a finire che mi accontento: di stare vicino alla famiglia, di accettare il lavoro che mi propone la mia rete di amicizie. Rinunciando a inseguire i miei sogni, quali che siano.
E per ridare a intere generazioni il diritto a sognare, dobbiamo innovare, dobbiamo selezionare. Per dirla con una metafora, l’Italia ha bisogno di una grande opera di potatura. Dobbiamo potare qualche ramo della pianta per far sì che possa produrre più frutti. E non si tratta solo di tagliare rami secchi; purtroppo è un po’ più complicato: con la potatura, si devono tagliare anche i rami che hanno scelto di crescere verso l’interno. Lo si deve fare per lasciare spazio a quelli che crescono verso l’esterno, perché solo quelli servono alla pianta. E questo, fuor di metafora, in termini economici e sociali, è facile a dirsi ma difficile a farsi. È difficile perché si tratta di tagliare rami vivi, non secchi, parti del tessuto economico e sociale che hanno una loro capacità di sopravvivenza. Perché laddove noi vediamo delle rendite, qualcuno vede un diritto acquisito, un modo dignitoso per sbarcare il lunario. Non c’è niente di moralistico in questo. A tutti noi piacciono le rendite, le nostre.
Questa opera di potatura non possiamo farla con una crociata ideologica contro le rendite, ma con una politica che offra una visione d’insieme. Se c’è una politica che ha una visione e indica un obiettivo raggiungibile (la crescita della pianta), anche qualche sacrificio (la potatura di qualche ramo) può essere politicamente realizzabile. Altrimenti, senza visione, senza progetto, ognuno si rinchiude nella difesa del proprio ramoscello.
E guardate: questa potatura è un’operazione difficilissima, ma sempre meno difficile, se la politica ritrova il coraggio necessario. Perché i costi del mancato cambiamento e dell’assenza di dinamismo cominciano a farsi insopportabili per alcuni. Esistono già adesso forze ed energie, aree del paese e generazioni, che avvertono sulle loro spalle, in maniera forte, i costi del mancato cambiamento. È a loro che deve guardare il Pd.
Il Pd deve mettere in campo un progetto forte di innovazione, che parli al Paese. E ingaggiare una battaglia per l’egemonia culturale e politica, senza temere avversari, a destra come a sinistra. Conducendo questa battaglia con entusiasmo e coerenza, in modo che ogni nostra scelta parli di questo, rimandi alla nostra visione complessiva di cambiamento del paese. Perché se non ci crediamo noi, per quale motivo dovrebbero crederci gli italiani?
Se il Pd riuscisse a mettere in campo un progetto politico di questo tipo, il problema delle alleanze si risolverebbe da solo. I nostri veri alleati dovrebbero essere gli elettori potenziali interessati ma non ancora convinti dalla nostra proposta politica. Sono le forze del merito, dell’impegno e del bisogno che aspettano di essere intercettate e mobilitate da un’offerta di cambiamento.
Se riusciamo a stringere questa alleanza con il paese, poi saranno gli altri partiti a dover decidere se allearsi o meno con il Pd. Con un Pd dall’identità forte e riconoscibile. Con un Pd che non si preoccupa di non dire quella cosa per evitare di scontentare un potenziale alleato, oppure di andare o meno a una manifestazione per non scontentarne un altro.
Movimento democratico deve ambire a far sì che questo progetto diventi il progetto del Pd. E, nel farlo, oltre a questo contributo sul merito, può finire anche per dare un contributo sul metodo, sul tipo di partito che vogliamo costruire. Quando è stato presentato il cosiddetto documento dei 75, si è parlato di una “grammatica” dei rapporti interni che era stata violata. Io la penso in maniera leggermente diversa. Credo che questa iniziativa, l’iniziativa di movimento democratico, possa servire anche a costruire una nuova “grammatica democratica” all’interno del partito. Perché se un partito che si chiama democratico ha paura di una discussione interna aperta, franca e appassionata: vuol dire che quel partito ha sbagliato nome!
L’alternativa a un dibattito vero, sui contenuti, è una sola: una linea politica annacquata che non sa parlare al Paese, e una selezione della classe dirigente che si basa non sullo scontro politico, ma sulle guerre intestine tra gruppi. Il Pd ha bisogno dell’esatto contrario: di linee politiche (e di carriere politiche) che vengono battezzate nel fuoco della battaglia delle idee.