«Dietrofront sul Jobs act per voucher e appalti» titolava, addirittura in prima pagina, il Sole 24 Ore del 18 marzo. «Ducati e Lamborghini, ecco l’accordo che smonta il Jobs act» si poteva leggere sulla Repubblica il giorno precedente. Per la serie: hanno ucciso il Jobs act, chi sia stato non si sa, forse quelli della mala, forse la pubblicità. Ma è proprio così?
I voucher come arma di distrazione di massa
I voucher sono un istituto che esisteva già prima e sul quale il Jobs act ha fatto ritocchi marginali. Il limite di reddito annuo per un individuo è stato alzato da 5mila a 7mila euro, ma tra i lavoratori pagati con voucher solo lo 0,5% (cinque ogni mille) ha riscosso più di 5mila euro nel 2016. Un’altra modifica ha introdotto l’obbligo di tracciabilità per via telematica, restringendone quindi l’utilizzo. Un po’ poco per legare il tema dei voucher al Jobs act, francamente. Sia in punta di diritto, sia in punta di filosofia della riforma.
I voucher hanno finito per essere usati come un’arma di distrazione di massa. E questo valeva prima per chi li additava come il nuovo precariato di massa (anche se rappresentavano meno dell’1% delle ore lavorate in Italia e il 90% dei lavoratori pagati con voucher ricevevano meno di 2mila euro lordi all’anno) e vale adesso per chi grida al tradimento del riformismo. Certo, la decisione di arrivare all’abrogazione totale andava gestita con maggiore linearità, preparando il terreno con alternative chiare e una transizione sufficiente. Ma ora guardiamo oltre, costruendo strumenti che evitino lo scivolamento dei lavoretti occasionali verso l’economia sommersa e favoriscano l’emersione e la professionalizzazione dei servizi alle famiglie.
Appalti e responsabilità solidale
Anche la modifica sugli appalti riguarda una norma del 2012, quindi precedente al Jobs act. Una norma sulla quale è difficile imbastire guerre di religione. Non viene toccato il principio della “responsabilità solidale”, sancito nel 2003 dalla riforma Biagi, per cui tanto il committente quanto l’appaltatore sono tenuti a farsi carico dei crediti maturati dai lavoratori (stipendi non pagati, contributi non versati, etc.). Viene solo abolito il meccanismo della “preventiva escussione”, introdotto appunto nel 2012 e in virtù del quale il lavoratore doveva rivalersi prima sul suo datore di lavoro (l’appaltatore) e solo dopo sul committente. Questo meccanismo aveva una sua ratio ma è difficile sostenere che tornare al regime in vigore dal 2003 al 2012 provochi sconquassi. Ed è ancora più difficile vedere un qualche legame tra questo tema e il Jobs act.
Bologna, Germania
Lo stesso dicasi per gli accordi aziendali in Ducati e Lamborghini. Leggendo l’articolo di Repubblica sopracitato si capisce che quegli accordi hanno semplicemente importato un pezzo delle relazioni industriali di stampo partecipativo della casa madre (il gruppo tedesco Audi-Volkswagen). Gli accordi non modificano i costi di licenziamento, ma introducono la possibilità di richiedere un confronto sindacale preventivo anche in caso di licenziamento individuale o demansionamento, al fine di sondare soluzioni alternative. Ci si limita quindi a introdurre una nuova procedura la cui ispirazione partecipativa non contrasta affatto con il Jobs act, anzi.
Il Jobs act è vivo e lotta insieme a noi
Perché questi titoli (e mille altri di simile tenore), allora? Per superficialità giornalistica? Niente affatto. Il vero motivo è che i fautori del Jobs act (incluso chi scrive) stanno perdendo una battaglia culturale, una battaglia di idee sul perché di quella riforma. Una riforma che rischia un pericoloso “effetto Gorbaciov”: amata all’estero da organizzazioni, investitori e osservatori internazionali, ma non compresa affatto dall’opinione pubblica italiana, che tende a leggervi un sinonimo di licenziamenti facili (a causa dell’enfasi posta sull’articolo 18) o di tutto quello che non piace ai sindacati (a causa dello scontro acceso che ne ha accompagnato l’approvazione).
Inutile dire che la riforma non è né l’una, né l’altra cosa. Cambiare le prime impressioni è come nuotare contro corrente. Ma la verità è che il Jobs act non è morto, resta semplicemente un cantiere aperto. E chi ha a cuore quella riforma deve tornare a prendersene cura, spiegandone le ragioni, investendoci di nuovo capitale politico, dialogo sociale, risorse economiche e capacità di implementazione amministrativa.