nto istituzionale nel nostro programma. Abbiamo ammainato una bandiera che ci aveva dato un’identità riconoscibile.
L’analisi di cui sopra è troppo impietosa per un secondo motivo. Il problema di trovare una nuova costituzione emotiva non è solo del Pd, ma di tutte le forze progressiste in Europa e nel mondo. La cosiddetta “terza via” aveva capito la domanda, ma non ha trovato le risposte. Tocca ripartire da quella sconfitta culturale ancor prima che politica. C’è una sfida di cultura politica da raccogliere. Come ho cercato di accennare in questa intervista su Linkiesta, dobbiamo dare una costituzione emotiva alla sinistra del XXI secolo, partendo da un’analisi multidimensionale delle diseguaglianze: non solo nel reddito, ma nelle capacità (alla Amartya Sen), nelle opportunità, tra generazioni. Se vogliamo portare avanti chi è nato indietro, a volte la risposta sarà più mercato, altre volte più intervento pubblico. A volte più diritti, altre volte più doveri. L’importante è che tutte le risposte stiano dentro un’unica costituzione emotiva, quella di un riformismo empatico e responsabile. Un riformismo che sappia ritrovare un senso, ancora prima del consenso.
Un partito di tipo nuovo
Per farlo, non esistono scorciatoie. Serve un partito che fa il partito, che intermedia la società in forme nuove, che dialoga con altri corpi intermedi, con altri centri dove si raccolgono esperienze e si elaborano idee. Un partito che seleziona e forma la classe dirigente pensando all’interesse del Paese e non di chi fa parte del club dei politici di professione. Si dirà: facile a dirsi, difficile a farsi. Vero. Ma non impossibile se sapremo essere all’altezza del messaggio che ci hanno mandato gli italiani.
Nelle nostre mozioni congressuali abbiamo parlato spesso di un partito in grado di farsi “rete di reti”, ma poi più che reti si sono viste correnti. Una rete di reti ha bisogno di think tank, di luoghi di studio ed elaborazione che riordinino nuove domande politiche dal basso e le facciano circolare (come hanno fatto per anni i conservatori negli Usa). Ha bisogno di incubatori di impegno civico: luoghi, risorse e momenti di formazione messi a disposizione dei tanti che hanno voglia di impegnarsi su campagne tematiche o singole battaglie, lasciando libere queste risorse di auto-organizzarsi al di fuori del partito. E ha bisogno di ripensare il ruolo dei circoli territoriali, con coordinatori che diventino organizzatori di comunità, con luoghi fisici dove, a seconda dei casi, si ricevano ascolto o informazioni e, perché no, anche offerte di formazione e di arricchimento personale al di là dell’impegno politico. Se sapremo mettere in campo tutto questo, il tema di come selezionare meglio la classe dirigente si risolverà a cascata. Perché è inutile negarlo: il voto in certe aree del Paese non si spiega solo con le proposte degli altri partiti, ma anche con l’inadeguatezza della nostra classe dirigente (per usare un eufemismo).
Ci aspetta una lunga traversata nel deserto. Prima di scegliere il capitano, dobbiamo chiarirci le idee sulla destinazione finale. E dotarci di una bussola. Dopodiché, non resterà che mettersi in marcia. Senza fretta, ma senza sosta.