Ci sono persone con cui hai condiviso una vita e che quando se ne vanno non possono che lasciare un vuoto immenso. Ce ne sono altre che hai incrociato da poco, ma che lasciano un vuoto parimenti incolmabile. Perché bastava una parola o uno sguardo per far scattare una sintonia speciale: quell’impasto magico in cui lavoro e amicizia, dossier professionali e affetto, si amalgamano in una miscela unica. Stefano Patriarca ci ha lasciati il giorno di San Valentino, strano segno del destino per una persona che aveva una visione così romantica della politica, del sindacato, delle istituzioni. Della vita. E ci mancherà maledettamente.
Dopo una vita dedicata al sindacato, allo studio e alle istituzioni, era approdato al team economico di Palazzo Chigi creato con il governo Renzi. Era una mosca bianca in un gruppo di un’altra generazione e con altri percorsi professionali, ma era arrivato con lo stesso entusiasmo da primo giorno di scuola. E da lui abbiamo imparato lezioni che vanno molto al di là di qualche comma o di qualche numero.
Stefano era fatto di una fibra speciale. Un tecnico al servizio prima del sindacato e poi della politica, un profondo conoscitore del nostro stato sociale, per cui una legge o una simulazione non erano mai qualcosa di astratto, bensì bisogni e speranze di persone in carne e ossa. Risolvere i problemi di quelle persone, dopo averle ascoltate mettendosi nei loro panni, era il suo modo per cambiare il mondo. La sua missione. Da riformista, ancor prima che da tecnico.
Non c’era stanchezza notturna che non potesse essere curata dal lampo di un’intuizione, dalla speranza (spesso dall’illusione) di aver trovato la risposta a un problema che ci era stato posto di giorno in qualche incontro con i sindacati o con i comitati di persone in difficoltà, a cui avevamo promesso di cercare soluzioni, senza vendere illusioni. Anche quando si arrabbiava (e non capitava di rado!) non era mai per una questione di ego, come spesso accade nei palazzi delle istituzioni, ma perché non si rassegnava al fatto che non si stesse facendo tutto il possibile per sanare un’ingiustizia, che inefficienze e ritardi burocratici avessero un impatto perverso sulla vita delle persone.
In un bellissimo video condiviso da Stefano Palmieri su Twitter, Stefano (Patriarca) cita una canzone di Gaber per dire che puoi sostenere di aver fatto la tua rivoluzione, di aver cambiato il mondo, solo quando puoi “mangiare un’idea”. Perché — aggiunge con i suoi occhi intelligenti che schizzano da tutte le parti — “la cosa più entusiasmante è elaborare delle idee, discuterle con le persone, con i delegati, con gli operai; riuscire a far sì che una proiezione della testa diventi una cosa che cammina nei bisogni e nelle vite delle persone”.
Per tre anni, abbiamo provato a mangiare idee insieme. Attorno a un tavolo, camminando per le strade di Roma, al telefono, a cena sulla sua terrazza che guarda il Colosseo. Perché la sua passione intellettuale era quella: convertire la sua grande conoscenza istituzionale, la sua competenza economica, il suo sapere dei numeri, della statistica, in politiche economiche e sociali a favore della giustizia sociale. Stefano conosceva ogni piega del sistema pensionistico italiano. Non solo perché lo aveva studiato a fondo. Ma perché aveva contribuito a cambiarlo: dalla riforma Dini all’Ape volontaria e sociale. Forse l’Ape sociale era l’intervento che sentiva più suo. Una misura che cercava di rispondere alle necessità di persone in difficoltà senza sfasciare i conti pubblici per le generazioni future; un altro mantra per Stefano: i giovani. La sua eredità intellettuale è anche in quell’intervento: giustizia sociale oggi, senza ipotecare il futuro dei nostri figli. Una visione di cui ha continuato a farsi paladino fino alle ultime apparizioni televisive, fino all’ultimo disegno di legge scritto insieme per una riforma complessiva del sistema previdenziale. Fino a quell’ultima, maledetta telefonata: “ho un po’ di febbre, ma per martedì spero mi passi e rivediamo insieme tutti i commi”.
Stefano era un’affascinante combinazione di pensieri e di conoscenze. I suoi occhi sempre accesi e incontenibili, il suo sguardo curioso e appassionato sul mondo, erano un faro di cui sentiamo ancora un maledetto bisogno. Ma l’eredità di tutto quello che ci ha trasmesso continuerà a guidarci.