Tutti votano lo scostamento. Ma ora servono più crescita e più Europa

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Mio intervento in dichiarazione di voto sullo scostamento di bilancio

Quello che ci apprestiamo a votare è il quinto scostamento di bilancio dall’inizio della crisi. Ormai votiamo scostamenti quasi con la stessa consuetudine con cui votiamo il calendario. Sui giornali se ne parla più per i numeri dei voti al Senato che per i numeri di finanza pubblica (ci si chiede se si raggiungerà la soglia della maggioranza qualificata, che cosa faranno le forze di opposizione). Sulle nostre caselle di posta elettronica, non arrivano le proposte e le sollecitazioni di cittadini e parti sociali che accompagnano altri provvedimenti. Sembra quasi di trovarsi di fronte a un atto dovuto, a un passaggio formale piuttosto che sostanziale.

È incredibile se solo pensiamo che il tema del debito pubblico e degli equilibri di finanza pubblica ha rappresentato la pietra angolare della politica economica in Italia e in Europa negli ultimi decenni. Altri governi e altri parlamenti si sono mossi nel sentiero stretto degli “zero virgola” per provare a contemperare crescita e risanamento finanziario.

La crisi pandemica ha cambiato tutto ed è giusto che sia così, ma questo non ci esime da considerare tutte le implicazioni delle scelte che stiamo prendendo, tutti i rischi che si riproporranno una volta usciti dalla pandemia, se non accompagniamo le scelte di bilancio con altre scelte politiche.

In sintesi: se non usiamo bene lo spazio fiscale che stiamo aprendo.

Anche l’evoluzione delle opposizioni che sono passate dall’astensione di ieri in commissione a un voto favorevole allo scostamento in aula è un fatto molto positivo. Che ci permette di passare dai numeri sbagliati, quelli dei margini parlamentari, ai temi giusti: quelli di come spendere bene le risorse.

Rispetto alla crisi finanziaria e del debito sovrano del 2008–11, l’Unione Europea si sta muovendo nella direzione giusta. Gli errori di una mal intesa austerità che allora frenò la ripresa in Europa sono stati compresi. La Commissione ha subito sospeso il Patto di stabilità. E si sta avviando, non senza difficoltà ma con una forte ambizione di fondo, il piano Next Generation EU per una risposta incisiva e condivisa alla crisi.

Come ci ha spiegato Mario Draghi, è il momento del debito “buono” (anche se noi italiani, e ci aiuterebbe dirlo, in passato siamo stati maestri di debito “cattivo”, per ragioni elettoralistiche piuttosto che per ragioni di crescita e giustizia sociale): ora i bilanci pubblici devono ripianare i debiti privati che altrimenti strozzerebbero famiglie e imprese, affossando le nostre economie.

Ma anche il debito “buono” avrà effetti, politici ed economici, nel futuro. Non perché dobbiamo restituirlo alla scadenza come capita a famiglie e imprese: il debito pubblico è diverso da quello privato. Ma perché il debito pubblico incide sulle scelte che governi, imprese e famiglie potranno fare in futuro.

Usando giustamente la nostra sovranità oggi per uscire dalla crisi stiamo ponendo vincoli sulla nostra sovranità domani, su quello che potremo fare dopo la pandemia. E dobbiamo esserne consapevoli. È il momento del coraggio delle scelte, ma il coraggio richiede senso di responsabilità. Altrimenti diventa qualcos’altro.

La risposta ai debiti che stiamo contraendo oggi sarà una sola (se ci sarà). E non penso alla crescita economica. Certo, senza crescita non c’è sostenibilità del debito, ma la crescita è una condizione necessaria e non sufficiente. Da sola non basterà. La risposta che serve è più Europa.

Più crescita. E più Europa.

Servono entrambe: una sola di queste di due cose per noi rischierebbe di non essere sufficiente. E le due cose si tengono tra loro. Perché solo se useremo bene le risorse che l’Europa ci sta mettendo a disposizione saremo credibili nel chiedere un salto di qualità nella costruzione europea, che serve a tutti gli stati membri, non solo all’Italia. E solo se l’Europa diventerà una vera unione fiscale che completi quella commerciale e quella monetaria, le nostre leggi di bilancio e le nostre riforme troveranno lo slancio necessario per agganciare una crescita sostenuta e sostenibile.

Più crescita. E più Europa. Servono entrambe ed entrambe si tengono tra loro.

Prendiamo il tema mediatico della cancellazione dei debiti dovuti al Covid. Per carità, non è il momento dei conservatorismi, dobbiamo pensare quello che sembrava impensabile poco tempo fa.

Così come la politica monetaria sta usando strumenti eccezionali, anche quella fiscale può disegnare strumenti eccezionali di fronte all’eccezionalità della crisi che stiamo vivendo. Ma pensare l’impensabile non può esimerci da pensare. A maggior ragione quando si avanzano proposte eccezionali, dobbiamo anticiparne tutte le conseguenze economiche e politiche.

Gli slogan e gli appelli non bastano. Non dobbiamo parlare di “cancellazione” perché a differenza dei debiti tra stati o verso organizzazioni internazionali, come nel caso per esempio dei paesi in via di sviluppo, sono debiti detenuti in gran parte da investitori istituzionali e famiglie. E penso che nessuno voglia cancellarli per fare default a livello europeo o italiano. Dobbiamo parlare, casomai, di “sterilizzazione monetaria” o di “mutualizzazione fiscale” dei debiti da Covid. Ma entrambe le cose richiedono scelte enormi e difficili.

Una parziale monetizzazione dei debiti richiede una modifica dei trattati europei e del mandato della Bce, preservandone l’autonomia. E sottolineo: preservandone l’autonomia. Una parziale mutualizzazione dei debiti richiede un’unione fiscale, che completi l’unione monetaria con un’autorità politica, non tecnocratica, che sposti a livello europeo un pezzo delle nostre tasse e dei nostri debiti. Tasse e debiti, il cuore della sovranità economica: o si spostano a livello europeo o non ne usciamo. Non ne esce l’Europa, perché resterà una costruzione incompiuta. Non ne esce l’Italia, perché col nostro debito avremo un fardello i cui costi prima o poi diventeranno una zavorra insostenibile.

Per questo, le risposte ai debiti che stiamo contraendo non arriveranno da slogan, da appelli o da alchimie finanziarie. Possono arrivare solo dalla Conferenza sull’Europa e da una nuova idea di Europa. Il momento è ora. In politica le “fasi due” non esistono quasi mai, se non nei sogni o nelle ipocrisie di chi le invoca. È nel mezzo di una crisi come questa che dobbiamo rilanciare la costruzione europea, o non riusciremo a farlo domani.

L’Italia deve mettersi alla testa di questa battaglia per una nuova sovranità europea. E deve farlo innanzitutto con la credibilità che solo un Piano nazionale per la ripresa e per la resilienza, serio, attuabile e basato su priorità chiare, potrà darci. Non per le condizioni che ci chiede qualche burocrate. Ma per le scelte che vogliamo fare, noi, come italiani, di fronte alla crisi.

Dobbiamo spendere presto e bene le risorse che stiamo mobilitando, ogni centesimo. Mettendovi al centro la crescita, sostenuta e sostenibile, e le speranze di milioni di giovani che abbiamo lasciato da soli a sostenere il costo della crisi, senza investire sulle loro opportunità, sulla loro formazione, sulla loro garanzia del reddito in ingresso nel mondo del lavoro.

È per questo che nell’annunciare il voto favorevole del gruppo del Partito democratico alla relazione presentata dal governo per chiedere un ulteriore scostamento finanziario, ribadisco che questo voto non è un atto formale, un passaggio burocratico, ma una scelta vissuta con consapevolezza e responsabilità rispetto a tutto quello che comporta.

Consapevolezza e responsabilità che da domani metteremo sulle sfide enormi che si aprono: (1) spendere bene le risorse italiane ed europee che stiamo mobilitando e (2) costruire un’Europa politica che completi l’unione commerciale e monetaria. Per raggiungere obiettivi di crescita economica, giustizia sociale e sostenibilità del debito. Per tutti noi e, da ultimo ma non ultimo, per le future generazioni di italiani e di europei.