In Italia, nella discussione pubblica, si ricorre spesso (a volte giustamente, a volte meno) alla retorica dei diritti. Mi unisco al coro rimpinguando la lista con un diritto in più, quello a inseguire i propri sogni. E lo faccio perché il libro di Francesco Cancellato, tanto veloce quanto penetrante e documentato, ricostruisce un quadro di divari generazionali che non riguar- da solo le politiche pubbliche, ma la società e l’economia italiane nel loro complesso. Un quadro che porta a una conclusione precisa. Il grande misfatto dell’immobilismo della Seconda Repubblica, dell’incapacità della politica di fare le riforme che servivano al paese, della resistenza degli imprenditori e delle famiglie italiane a modificare abitudini consolidate, dell’incapacità delle rappresentanze sociali di intermediare la società in modo nuovo: il grande misfatto di tutto questo è stato quello di aver privato intere generazioni de diritto a sognare. A sognare che se mi impegno a fondo e investo su me stesso, sulle mie capacità e sulle mie aspirazioni, ho una possibilità di farcela, indipendentemente dalle amicizie, dalle risorse di partenza della mia famiglia, dalla fedeltà al cavallo giusto. Sapendo anche che, se non ce la faccio, c’è una rete di sostegno, un sistema di welfare universalistico che mi aiuterà a rialzarmi e a costruire una seconda opportunità. Perché se non è così, va a finire che mi accontento: di stare vicino alla famiglia, di accettare il lavoro che mi propone la mia rete di conoscenze. Rinunciando a inseguire i miei sogni, quali che siano. O magari quei sogni vado a inseguirli da qualche altra parte, all’estero. Non perché l’erba del vicino sia sempre più verde, ma perché lì – tanto per fare un esempio – se mando un curriculum a un’università può succedere che mi offrano un posto da ricercatore, mentre in Italia devo aspettare il mio turno, pazientemente, mentre il barone del mio settore rilascia interviste per denunciare che l’università non ha risorse sufficienti (vero, ma anche i comportamenti virtuosi e la meritocrazia sono risorse troppo scarse dalle nostre parti).
Già prima della Grande recessione, l’Italia appariva come un paese stanco, che aveva perso la capacità e a tratti la voglia di crescere. C’erano tutti i segni di quello che qualche anno fa mi è capitato di chiamare «dolce declino»: un mix di crescita, produttività e investimenti che stagnano, disuguaglianze che si allargano e ricchezza privata a livelli da hit parade internazionale. Il dolce declino ci ha illusi che bastava lasciar passare la nottata, scaricare le colpe su qualche capro espiatorio, senza cambiare regole e comportamenti consolidati. In fondo – abbiamo pensato – dati i livelli di reddito che abbiamo raggiunto possiamo mandare avanti la baracca e goderci il quieto vivere per altri decenni. Accettando, nel frattempo, che risorse preziose vadano all’estero per essere valorizzate o, peggio, si accontentino di quel che passa il convento a rinuncino a coltivare i propri sogni. Accettando che le famiglie che non hanno accumulato ricchezza sulle spalle del miracolo economico del secondo dopoguerra o del debito pubblico successivo siano le prime a cadere sotto la soglia di povertà. Accettando che il futuro si crei da qualche altra parte nel mondo.
Non c’è niente di più inesorabile del piano inclinato di un declino lento, poco percepibile, finché i suoi effetti non diventano così diffusi da rendere impossibile ignorarli. In queste condizioni, è difficile anticipare i tempi, cambiare rotta prima che sia troppo tardi. Come ci insegna la storia economica, il declino economico nasce spesso dall’incapacità di adattare un vecchio modello produttivo a una realtà profondamente mutata: l’Argentina, all’inizio del Novecento, poteva creare ricchezza producendo grano e carne, oggi non più, ma c’è voluto quasi un secolo per rendersene conto. L’incapacità di adattamento è tanto maggiore quanto più il vecchio modello ha avuto successo e ha permeato le strutture istituzionali e i comportamenti sociali di regole non scritte a esso funzionali. Come avviene anche nella vita di tutti noi, i segreti dei successi passati possono tramutarsi nelle cause dei fallimenti futuri. Perché non c’è niente di più difficile che allontanarsi da quelle cose che ci hanno regalato momenti felici, anche se adesso si sono trasformate nelle cause dei nostri passi falsi.
Poi, è arrivata la Grande recessione, che ha accelerato i tempi: non ci ha certo fatto toccare la fine del piano inclinato del dolce declino, ma ce l’ha fatta intravedere. Abbiamo cercato di invertire lo stallo aprendo un cantiere di riforme, una prospettiva nuova verso la crescita inclusiva, ma è ancora troppo poco e troppo presto perché il tessuto economico e sociale possa digerire il cambio di passo, perché i risultati possano consolidarsi creando un circolo virtuoso. Molte delle storture generazionali analizzate da Cancellato vengono da lì, dalla stagnazione economica e sociale degli ultimi decenni e da un percorso di cambiamento rimasto in mezzo al guado. E da lì bisogna ripartire. Investimenti, competenze, qualità del lavoro, welfare universalistico. Ecco le parole d’ordine da rendere concrete per prendersi cura del futuro. Per non lasciare nessuno da solo di fronte alla sfida del cambiamento. Per liberare energie, combattere insicurezze e restituire ai giovani il diritto a sognare.
C’è stato un periodo in cui i cinesi di cui ci racconta Cancellato, seppur in scala diversa, eravamo noi. In cui intere generazioni di italiani accettavano i sacrifici connessi al cambiamento, alla reindustrializzazione e al passaggio dalle campagne alle città, dal Sud al Nord, perché sapevano che avrebbero costruito un futuro migliore per loro e per i loro figli, perché un nuovo sistema di welfare e il balzo in avanti della scolarizzazione preparava le basi per una crescita più solida e nuove opportunità per le future generazioni. Per carità, il cambiamento non è un pranzo di gala. È un processo difficile, che produce costi di aggiustamento. Ma il compito della politica e dei corpi intermedi dovrebbe essere quello di provare a governarlo.
Anche se oggi ha nomi nuovi e sofisticati come globalizzazione o intelligenza artificiale, la sfida del cambiamento strutturale dell’economia non è nuova per i tanti distretti economici che hanno fatto crescere il nostro paese. Faccio un esempio preso dalla zona d’Italia in cui sono nato, il Valdarno, che un tempo era noto per i cappelli, per un orgoglio imprenditoriale e anche operaio legato ai cappellifici. A un certo punto, le persone hanno smesso di portare i cappelli (gli economisti lo chiamano «shock della domanda»). Che cosa hanno fatto i valdarnesi di fonte a questo shock? Non hanno richiesto una legge con cui lo Stato obbligasse tutti i dipendenti pubblici a portare cappelli per sostenere la domanda. Tutti insieme – imprenditori lungimiranti, forze sociali, sindacato e istituzioni – si sono rimboccati le maniche e hanno cercato di anticipare il cambiamento per, appunto, governarlo. Naturalmente, non è facile e non voglio sembrare sbrigativo: i cambiamenti con i quali ci confrontiamo oggi sono molto rapidi. Alcuni economisti leggono l’evoluzione del mercato del lavoro come una corsa continua tra il progresso tecnologico, che crea ricchezza ma distrugge posti di lavoro, e l’istruzione, che invece crea nuove opportunità. Se il progresso tecnologico corre più veloce, anche l’altro concorrente della corsa deve aumentare il passo. Ecco la sfida che ci attende. Di nuovo, competenze e investimenti.
Un’altra cosa che ci insegna il libro di Cancellato è che i divari generazionali non nascono solo dalle politiche pubbliche. Non esiste un altro paese europeo in cui l’anzianità abbia tanta centralità nella vita quotidiana e nel discorso pubblico quanto in Italia. Quando volgiamo preoccupati lo sguardo al futuro, immediatamente, scatta nella società italiana un riflesso condizionato: il ricorso all’anzianità. L’essere anziani si tramuta automaticamente nell’essere esperti. Questa rappresentazione della realtà non è solo parziale ma può diventare dannosa. Non è un dibattito intellettuale, ma un atteggiamento che ha ricadute concrete. L’Italia è l’unico tra i principali paesi europei a vedere gli stipendi crescere automaticamente e senza punti di svolta con l’anzianità. Quando il Governatore Mario Draghi fece nel 2007 questa osservazione, dati alla mano, ne risultò uno dei discorsi più ignorati nella storia di Banca d’Italia. È per questo che nel 2011, con Filippo Taddei, mi è capitato di proporre un fisco a doppia progressività, di reddito e d’età. Per ridurre le tasse in maniera più forte soprattutto sulle giovani generazioni. Per carità, non è l’unica proposta in grado di dare il segnale che si possono aggredire i divari generazionali che si sono aggrovigliati nel nostro paese. Ma ignorarli non ci porterà da nessuna parte.