Il contratto a tutele crescenti non è solo il primo tassello del Jobs Act targato Renzi-Poletti. Ne rappresenta anche una delle architravi. Architrave che non può reggere da sola l’intero impianto – estensione dell’assicurazione contro la disoccupazione, semplificazione delle tipologie contrattuali e, soprattutto, politiche attive sono altrettanto vitali – ma che risulta nondimeno fondamentale.
Si dirà: dopo due decenni in cui si sono susseguite svariate riforme del lavoro, c’era davvero bisogno di un nuovo intervento a tutto campo? In verità, il Jobs Act ribalta il paradigma su cui si sono basati quasi tutti gli interventi precedenti, che si sono mossi all’interno di un’ondata di riforme che ha coinvolto molti paesi Ocse a partire dagli anni ’90: l’ondata della cosiddetta “flessibilità al margine”, per cui si facilitava il ricorso a forme contrattuali atipiche lasciando immutata la disciplina del lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Riforme di questo tipo hanno sì aumentato i margini di flessibilità organizzativa e produttiva a disposizione delle imprese, ma hanno finito per scaricarne i costi soltanto su una fascia di lavoratori, a partire dalle generazioni più giovani, aumentando il dualismo e il divario di opportunità tra i lavoratori a tempo indeterminato e tutti gli altri. La riforma Fornero, la legge 92/2012, aveva cercato di superare questo approccio, spostando l’enfasi dalla protezione del posto in azienda alla protezione del lavoratore sul mercato. Ma per una serie di timidezze politiche e di complicazioni normative aveva finito per fermarsi a metà del guado.
Il Job Act aggredisce il dualismo del nostro mercato del lavoro, anche se limitatamente alle nuove assunzioni, riducendo i costi di licenziamento con l’obiettivo di ridare centralità alle assunzioni a tempo indeterminato. È la logica delle tutele crescenti. La tutela risarcitoria in caso di licenziamento ingiustificato aumenta gradualmente con l’anzianità di servizio presso lo stesso datore di lavoro (2 mesi per ogni anno d’anzianità, con un minimo di 4 e un massimo di 24). Rimane, ovviamente, la tutela reintegratoria per i licenziamenti discriminatori o per alcune fattispecie circoscritte di licenziamenti disciplinari. La motivazione per introdurre costi di separazione che risultino prevedibili ex ante e crescano nel tempo è duplice. Da una parte, come in tutti gli altri rapporti interpersonali, anche in quelli di lavoro la qualità (o meglio: la produttività) dell’incontro tra datore e dipendente può essere conosciuta e valutata soltanto col passare del tempo. Dall’altra, è giusto che un dipendente che ha investito il proprio capitale umano e il proprio saper fare nella stessa azienda per molti anni riceva un risarcimento maggiore in caso di licenziamento.
Alcuni obiettano che non ha senso parlare di tutele crescenti, perché la tutela reale dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non rientra mai in gioco, neanche dopo un periodo transitorio di tre o più anni d’anzianità di servizio, come era invece previsto in altre ipotesi di riforma. Questa critica, tuttavia, tradisce un retaggio culturale per cui l’unica forma di tutela concepibile per il lavoratore è quella reintegratoria, retaggio che mal si sposa con molti ordinamenti stranieri o con la nostra giurisprudenza costituzionale. Non solo. Se la tutela reale fosse tornata a scattare dopo un numero predeterminato di anni sarebbe stato meglio parlare di tutele “a salti” piuttosto che “crescenti”, con tutte le distorsioni da effetto soglia che un tale contratto si sarebbe portato con sé.
Un altro ingrediente essenziale del contratto a tutele crescenti è la nuova procedura di conciliazione standard, volta a rafforzare la volontà consensuale delle parti. Entro 60 giorni dal licenziamento, il datore può offrire al lavoratore, in sede sindacale o in qualsiasi altra sede protetta e mediante la consegna di un assegno circolare, una buonuscita compensatoria d’ammontare prestabilito (1 mese per ogni anno d’anzianità di servizio, con un minimo di 2 e un massimo di 18). L’accettazione dell’assegno in tale sede da parte del lavoratore comporta l’estinzione del rapporto alla data del licenziamento e la rinuncia alla sua impugnazione. Non solo. La somma ricevuta non fa parte del reddito imponibile ai fini dell’imposta sul reddito e non è soggetta a contribuzione previdenziale. Ovviamente, le parti possono chiudere in quella stessa sede conciliativa qualsiasi altra pendenza derivante dal rapporto di lavoro, ma sulle somme eventualmente pattuite si pagano le tasse.
Insomma, gli elementi chiave della nuova procedura di conciliazione sono due. Primo: l’esistenza di una somma predeterminata per legge e sottratta alla disponibilità delle parti. Secondo: l’esenzione fiscale totale. Elementi che, nelle intenzioni del legislatore, dovrebbero diminuire l’incertezza legata ai costi di separazione (sia per l’impresa sia per il lavoratore) e ridurre il contenzioso giudiziario.
Proprio per la natura “economica” del disegno sottostante alle tutele crescenti, il successo o meno di questo contratto non può essere valutato sulla carta. Il disegno avrà successo se il nuovo contratto sarà in grado di riassorbire le tante forme di flessibilità in entrata e di lavoro atipico. Solo se i flussi di nuove assunzioni saranno in misura crescente a tempo indeterminato, la sfida avrà colto nel segno, riducendo il dualismo e allargando le opportunità. Solo se ci sarà un effetto “sostituzione” a favore del tempo indeterminato nella fase d’ingresso nel mercato del lavoro, sempre più lavoratori (soprattutto giovani) potranno accedere anticipatamente a tutele e garanzie in grado di permettergli d’investire sul proprio capitale umano, di accendere un mutuo, di essere coperti da rischi imprevisti. Altrimenti, si saranno solo ridotti i costi di licenziamento per le imprese. Il tempo e, speriamo, banche dati analizzate con tecniche statistiche alla frontiera della ricerca scientifica ci daranno il loro responso a riguardo.
Naturalmente, nel breve periodo, una valutazione del genere sarà complicata dalla contemporanea attuazione dello sgravio totale dei contributi INPS (fino a un massimo di 8.060 euro annui) previsto dalla Legge di stabilità per il 2015. Sgravio che durerà per 3 anni sui nuovi assunti nel corso del 2015. Si tratta, ovviamente, di una forte misura congiunturale – per sua natura non strutturale – volta a favorire le assunzioni a tempo indeterminato. Nei prossimi mesi, sarà difficile distinguere gli effetti di questa misura dagli “sgravi normativi” introdotti dal contratto a tutele crescente. Una possibile tecnica di valutazione sarà quella di confrontare le serie storiche delle assunzioni a tempo indeterminato per imprese appena sotto e appena sopra i 15 dipendenti, perché al di sotto di questa soglia sono attivi gli sgravi contributivi mentre la riduzione nei costi di separazione operata dal contratto a tutele crescenti non produce effetti. Una valutazione più articolata, che coinvolga anche le imprese di maggiori dimensioni, avrà però bisogno di più anni (e di più dati). Sempre che il contratto a tutele crescenti regga alla prova del tempo, vincendo la sfida del mercato e sottraendosi alla volatilità del processo politico-legislativo.
La sfida del Jobs Act, in ogni caso, non si esaurisce nel contratto a tutele crescenti. Il rafforzamento della protezione dei lavoratori sul mercato passa anche da un aumento nell’estensione e nella durata dei sussidi di disoccupazione (la nuova ASpI e l’assegno addizionale di disoccupazione sottoposto alla prova dei mezzi), rafforzandone allo stesso tempo la condizionalità, e dal potenziamento dei servizi per l’impiego e per l’occupabilità. La sfida è quella di creare una nuova (e più efficiente) rete di politiche attive, incentrata sul ruolo di controllo, coordinamento e valutazione di un’agenzia nazionale, ma valorizzando allo stesso tempo il ruolo di soggetti privati, anche no profit o legati alla bilateralità, in un’ottica di quasi-mercato. Anche qui la sfida non sarà vinta, o persa, sulla carta. Tutto si giocherà sulla cornice istituzionale e sulla credibilità degli attori che dovranno garantire l’efficacia dell’implementazione dei nuovi servizi.
Per chiudere: si possono nutrire dubbi sulle argomentazioni di cui sopra circa la necessità di una nuova riforma del mercato del lavoro. È difficile nutrire dubbi, invece, sull’utilità di un libro, come quello curato da Giampiero Falasca, che la analizza in maniera rigorosa, con dovizia di dettagli tecnici e tenendosi alla larga da semplificazioni giornalistiche o da dispute ideologiche. Uno strumento prezioso per chi dovrà usare le nuove norme e per chi sarà chiamato a valutarle. Buon approfondimento e buona lettura.