1) L’insidioso ritornello sulla “sbornia liberista” della sinistra negli anni ’90.
Sono in molti a dirlo, ormai: le divergenze d’opinione interne al centrosinistra in merito al lavoro e allo stato sociale sono finalmente alle nostre spalle. La bandiera dell’unità è tornata a splendere sotto il sole, perché la sinistra ha smaltito la sbornia liberista di cui era caduta vittima negli anni ’90, negli anni del cedimento al pensiero unico delle privatizzazioni e dei tagli al welfare state. Questo ritornello è politicamente accattivante, quando ci si trova all’opposizione e si deve costruire una vasta alleanza per vincere le elezioni, ma non è privo di insidie, visto che rinvia sine die una chiara battaglia politica per l’identità del futuro soggetto riformista (che alla suddetta alleanza dovrebbe fornire quella stabilità e quella credibilità necessarie per governare). Il ritornello sulla sbornia liberista, infatti, si porta dietro due corollari altrettanto ingannevoli.
Primo corollario. “Le più importanti riforme realizzate dal centrosinistra quando si trovava al governo erano sbagliate”. Non si tratta di un dibattito storiografico, ma politico. La furia iconoclastica della sinistra radicale non sembra accontentarsi di cancellare gli interventi del governo Berlusconi. Il vero obiettivo polemico – spesso se non sempre – sono le riforme degli anni ’90 (a partire da quelle su pensioni e mercato del lavoro). Intendiamoci: i riformisti non devono limitarsi alla difesa di quella stagione di governo. Ma sarebbe sbagliato cancellare quelle riforme per tornare allo status quo ante, per cambiare direzione rispetto ai passi compiuti allora. Al contrario, dobbiamo ripartire da quello che non siamo riusciti a fare (a causa delle nostre divisioni): completare gli interventi con un disegno coerentemente riformista. Affiancando alla flessibilità in entrata della legge Treu, un ridisegno complessivo delle tutele nel mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali. E affiancando alla riforma Dini, misure di perequazione contributiva tra categorie e di equità attuariale tra generazioni, oltre a strumenti efficaci per il decollo della previdenza complementare.
Secondo corollario. “L’idea stessa di dover innovare profondamente le linee direttrici e gli strumenti delle politiche tradizionali della sinistra era sbagliata”. Intendiamoci: alcune delle risposte concrete individuate negli anni ’90 dai governi di centrosinistra a livello europeo sono ampiamente criticabili. Di sicuro, non è partita una nuova onda lunga di sinistra, paragonabile a quella rappresentata dalla rivoluzione conservatrice sull’altro versante, ma ciò non toglie che la ricerca di un nuovo paradigma fosse ingannevole. Al contrario, chi ha posto per tempo quella sfida si trovava nel giusto. Di fronte alle pressioni che invecchiamento demografico, globalizzazione e fallimenti dello stato hanno imposto ai sistemi di welfare, si avverte il bisogno di una “terza via” tra conservatorismo di sinistra e neo-liberismo, di una visione che restituisca alla politica il compito di indicare nuove priorità. I conservatori, infatti, si auto-limitano nel compito di stanchi custodi delle priorità e degli strumenti dettati dalla politica di ieri. I liberisti chiedono alla politica di fare un passo indietro definitivo rispetto al domani. Non è semplice sfuggire a questa alternativa. Ma prendere atto del superamento della visione socialdemocratica dei compiti dello stato, non significa trasferirsi armi e bagagli nel terreno della destra, quanto piuttosto cercare terreni e livelli diversi. Non dobbiamo essere impauriti dalla traversata del deserto richiesta da questa ricerca. Servono creatività, coraggio politico e visione d’insieme.
2) La crisi del welfare è ancora tra noi: conservatorismo e buonismo non la faranno andare via.
Anche se può sembrare superfluo (temo che non lo sia), dobbiamo ripassare l’analisi sulle radici della crisi del welfare europeo, che tante volte ci siamo ripetuti nel corso dell’ultimo decennio1. In tema di stato sociale, nella passata legislatura, acquistò diffusione e consenso una tesi che potremmo chiamare del “furto intergenerazionale”. Secondo questa linea interpretativa, il welfare state italiano è stato disegnato a uso e consumo delle generazioni contemporanee alla sua edificazione, che hanno saputo scaricarne i costi su quelle future (politicamente ininfluenti) sotto forma di oneri del debito pubblico, di spettanze previdenziali finanziariamente insostenibili e di minore occupazione per eccesso di vincoli2. I giovani di oggi sono i primi chiamati a pagare il conto di tanta dissipazione. Si tratta di una tesi che mantiene una sua validità e che, forse, si è addirittura accentuata in seguito agli interventi degli anni ‘90, i cui costi di aggiustamento sono stati in gran parte scaricati sulle generazioni giovani e future. Per un giusto rispetto dei diritti acquisiti e per un meno sacrosanto rispetto delle aspettative acquisite, infatti, si è finito per far pagare a queste generazioni i costi della transizione verso un sistema previdenziale sostenibile e un mercato più flessibile.
Tuttavia, le ragioni di una riforma dello stato sociale risiedevano – e risiedono – anche in altre distorsioni: come le “redistribuzioni perverse” (cioè le redistribuzioni da chi ha poco verso chi ha di più; perché nel welfare italiano non tutti i figli risultano svantaggiati e non tutti i padri sono sufficientemente tutelati); o le “perdite sociali nette” (legate ai costi in termini di efficienza di quello che Assar Lindbeck ha ribattezzato come transfer state3, un sistema di trasferimenti a vantaggio degli interessi politicamente influenti piuttosto che dei veri bisognosi). Tutte queste patologie derivavano – e derivano – sia da fattori esogeni (invecchiamento demografico, progresso tecnologico, nuova organizzazione del lavoro, mutamenti della struttura sociale), sia da fattori endogeni alle politiche sociali (fallimenti burocratici, ricerca ed elargizione di rendite, disincentivi economici).
Per farla corta: l’esigenza di riformare lo stato sociale nasceva – e nasce – tanto da ragioni di equità tra ed entro le generazioni, quanto dalla necessità di adattarlo ai cambiamenti economici e sociali. A volte, sono gli stessi successi del welfare (come la riduzione delle disuguaglianze che ha accompagnato l’ascesa della classe media) a richiedere una revisione di alcuni dei suoi istituti. Il compito di “salvare il soldato Beveridge”, riscrivendo il patto di cittadinanza che sta alla base dei diritti materiali, dovrebbe essere l’orizzonte programmatico di qualsiasi forza di sinistra; non è certo il frutto della propaganda neo-liberista. E di fronte a una sfida di tale portata, non sono di aiuto né il conservatorismo (il riflesso automatico del tipo “fermi tutti, non si tocca niente”), né il buonismo (l’atteggiamento di chi dispensa benevole promesse di aiuto verso chi si trova in balia dell’insicurezza, salvo scordarsene il giorno dopo se le risorse pubbliche disponibili non lo consentono). Non si risponde alla pressante domanda di nuove tutele, di nuove opportunità e di una maggiore mobilità sociale con qualche toppa, con qualche intervento al margine che non modifica nessuno di quelli esistenti, in modo da non scontentare chi attualmente ne beneficia. È in questa ottica che dobbiamo leggere il dibattito sull’esigenza di “nuove politiche pubbliche” (altro ritornello che ricorre spesso). Niente in contrario: purché quel “nuove” sia interpretato non tanto in termini cronologici o meramente incrementali, quanto piuttosto come sinonimo di “innovative”. Vediamo in che senso.
3) Le stelle polari di un approccio riformista: capabilities e responsabilità.
Il rilancio di una prospettiva riformista passa attraverso la capacità di proposta di un modello di stato sociale che, superando le insicurezze associate alle insufficienti risposte fornite dalla fase neo-liberista, ne sappia comunque cogliere alcune istanze di crescita delle libertà degli individui: declinandole in termini di libertà-di-conseguire o capabilities, per dirla con Amartya Sen4. La fonte delle disuguaglianze rilevanti, come ci insegna Sen, non deve essere cercata nel semplice possesso dei beni, ma nella relazione tra le persone e i beni. Serve un qualche concetto di “capacità fondamentali”: la facoltà di una persona di fare certe cose fondamentali (per esempio, partecipare compiutamente alla vita sociale). Poiché gli individui sono profondamente diversi tra loro, il passaggio dai beni alle capacità varia da persona a persona. In questo contesto, l’obiettivo delle politiche sociali dovrebbe essere quello non tanto di fornire certi beni, ma di porre gli individui nella condizione di sviluppare le proprie facoltà, di espandere il menù delle opportunità a loro disposizione, di rimuovere le rendite di posizione che ostacolano la piena realizzazione dei progetti di emancipazione di ciascuno. È inutile sottolineare come in una prospettiva di allargamento delle capabilities – degli strumenti che l’individuo può mettere in campo per raggiungere i propri obiettivi di vita – siano cruciali tutti i settori del welfare: dalla previdenza all’assistenza, dall’istruzione alla sanità, dalle politiche del lavoro alla formazione.
Se questo è l’obiettivo di fondo, uno degli obiettivi intermedi non può che essere quello di espandere la sfera della responsabilità, individuale e collettiva. Non è un caso che nel Beveridge Report, subito dopo la parola “bisogno”, fosse “responsabilità” il termine più utilizzato. Serve un’enfasi nuova sulla responsabilità individuale, sulla lista dei doveri che si accendono per chiunque usufruisca di diritti che hanno un costo per la società. E, soprattutto, serve una maggiore responsabilità collettiva, perché proprio il tema del costo dei diritti impone alle istituzioni e alla politica l’arduo compito di far capire che trasferimenti e servizi non possono essere scritti per sempre sulle tavole della legge, ma sono soggetti a un lavoro di continua ricalibratura, per tenere fede alle promesse di uguaglianza ed emancipazione che ne stanno alla base. Considerato che tutti i diritti sono costosi (anche quelli di proprietà, visto che poliziotti e vigili del fuoco esigono uno stipendio), esiste un problema di compatibilità: se la società cambia e pone l’esigenza, spesso pressante, di nuove forme di tutela, la politica deve saper scegliere. In altre parole: deve saper redistribuire i diritti. Conosco l’obiezione. Ecco i soli riformisti malati di economicismo, nelle vesti di tristi ragionieri che predicano la dura legge dei vincoli e delle compatibilità. Niente di più falso. Chi (si) pone questi problemi è l’alfiere del cambiamento possibile. Gli altri vendono fumo. Come ci insegnano Stephen Holmes e Cass Sunstein: “una teoria dei diritti non disposta a calarsi dalle vette della morale nel mondo reale, dove le risorse sono scarse, sarà profondamente incompleta perfino dalla prospettiva morale”5.
Il progetto riformista deve essere letto come un nuovo patto di cittadinanza responsabile, come il tentativo di riscrivere il sistema del welfare nell’unico modo sostenibile: redistribuendo diritti e doveri, opportunità e responsabilità, in maniera equa tra ed entro le generazioni. Certo, la redistribuzione dei diritti è un compito che fa impallidire anche i più impavidi riformisti. Un compito da lacrime e sangue, sapendo che il sangue può essere quello dei politici che si cimentano nella sfida. Ma le lacrime e il sangue – Blair docet – possono essere affrontate con il sorriso sulle labbra, se c’è un disegno chiaro e una guida sicura che accompagna le persone nella tempesta del cambiamento, indicando loro il punto di approdo finale rappresentato da un welfare state che aiuta chi ha realmente bisogno, da un sistema sociale che premia il merito e l’adattabilità. Senza scordarsi di fare vedere che – temporaneamente e a certe condizioni – si cerca di aiutare chi subisce in prima persona i costi dell’aggiustamento.
Si obietterà: facile a dirsi. È vero, ma ciò non vieta che la sinistra debba anche provare a farlo, se vuole uscire dall’inconcludente alternativa che vede contrapposti conservatorismo e buonismo da una parte, e neo-liberismo dall’altra. Per dimostrarci all’altezza della sfida, dovremo attrezzarci con proposte che superino il test riformista dell’onere della prova. È indubbio, infatti, che l’onere della prova spetti ormai ai socialisti e ai liberali interventisti. Devono essere loro a dimostrare che – in determinate condizioni e utilizzando precisi strumenti di intervento – lo stato può aumentare il benessere sociale e le capabilities dei più, integrando o correggendo il meccanismo di mercato. In Italia, questa dimostrazione si scontra con due passaggi: 1) la capacità dei riformisti di individuare le risorse necessarie per realizzare il loro progetto; 2) la capacità dei riformisti di “sbloccare” una società per molti versi immobile come la nostra.
4) Dalle riforme “sottrattive” alle riforme “smobilitanti”.
L’agenda riformista degli interventi necessari per realizzare la redistribuzione dei diritti di cui sopra è già scritta. Mi limito alle priorità: a) nuove tutele per i lavoratori flessibili (ammortizzatori sociali, certo, ma anche servizi mirati in termini di informazione, formazione e mobilità); b) misure a favore dell’occupazione femminile (servizi all’infanzia e aiuti dal lato della domanda); c) politiche di sostegno alle famiglie per non lasciarle sole di fronte al dramma della non autosufficienza delle persone anziane; d) istruzione, istruzione e ancora istruzione. Se non ci accontentiamo di qualche promessa da marinaio, dobbiamo dire dove intendiamo reperire le risorse necessarie per affrontare simili priorità. Mi limito a richiamare il tema con qualche formula a effetto. Per esempio, “meno pensioni, più welfare”: minori risorse pubbliche destinate alla copertura di un rischio che assorbe gran parte della spesa sociale (continuità del reddito durante la vecchiaia), maggiore protezione per rischi oggi sotto-tutelati (continuità del reddito da lavoro flessibile; assicurazione familiare per la cura degli anziani non autosufficienti)6. Oppure, “minore stock del debito, più scuola e ricerca”: un serio programma di riduzione permanente della fetta di bilancio pubblico destinata alla spesa per interessi, per allargare in maniera altrettanto duratura gli investimenti in capitale umano (gli unici in grado di proiettarci verso la società e l’economia della conoscenza). Non perché non servano più le pensioni (o i dipendenti pubblici, se volessimo parlare di un’altra patata bollente da prendere in mano), ma perché lì esistono margini di riduzione della spesa: riduzioni non indolori, ma meno traumatiche di un immobilismo che lascerebbe senza copertura bisogni che rischiano di trasformarsi in vere e proprie emergenze sociali.
Nella sua fase di decollo, il welfare state poteva far leva su riforme “additive”, che estendono gli istituti di protezione e intorno alle quali è facile aggregare consenso. Oggi, non è più così. Se si vuole restituire alla politica il compito di definire il contratto che sta alla base dello stato sociale, si devono attuare anche riforme “sottrattive”. Interventi, cioè, che riducano la presenza pubblica in certi settori – perché le nostre società sono cambiate e in molti campi dimostrano di potere (e volere) fare a meno di uno stato “angelo custode” – ma che nel contempo l’allarghino in altri, per tutelare nuovi rischi e soddisfare nuovi bisogni. Si avverte l’esigenza, in altre parole, di una strategia riformista che sappia coniugare due elementi: 1) il coraggio politico di attuare riforme sottrattive; 2) la creatività istituzionale richiesta per coprire nuovi bisogni. Sapendo che solo risultati concreti su questo secondo fronte potranno garantire il consenso politico per realizzare riforme sottrattive, e che a loro volta soltanto le risorse liberate da simili riforme potranno estendere le aree d’intervento. Si tratta di un problema di circolarità non di poco conto, che i riformisti sono chiamati a sciogliere, se vogliono vincere la sfida del welfare nelle società contemporanee. Nel nostro messaggio agli elettori, dobbiamo sforzarci di tenere costantemente congiunti questi due elementi, senza oscillare in maniera schizofrenica tra i due estremi: cercando di attuare riforme sottrattive quando si è al governo e promettendo mari e monti quando si è all’opposizione. Per riuscirci, come detto, i riformisti dovranno sfoderare una grande capacità di visione e di comunicazione, per rendere percepibile (e quasi far toccare con mano) all’elettorato il punto d’approdo finale: uno stato sociale equo e sostenibile.
È anche per questa ragione che non possiamo dimenticarci di inserire nel pacchetto complessivo del progetto riformista alcune riforme “smobilitanti”, da attuare immediatamente, appena tornati al governo, in modo da rendere meno costoso il cambiamento per gli individui. Dobbiamo cercare di rimettere in moto una società immobile, rimuovendo i costi di mobilità. Quella italiana è una società bloccata. Dove la probabilità di ereditare impiego e fascia sociale dai genitori è maggiore rispetto agli altri paesi sviluppati. Dove i giovani devono farsi largo in un mercato infestato da rendite e protettorati, che sviliscono il merito e richiedono costi in entrata insopportabili per molti (sotto forma di mancata autonomia e assenza di prospettive trasparenti). Dove ci si rende autonomi dalla famiglia, impiantandone una propria, con un ritardo difficilmente imputabile alla sindrome dei “mammoni”, piuttosto che alla mancanza di opportunità e servizi. Anche qui, l’agenda è già scritta: dalla riforma delle professioni a quella dell’università. Interventi che non richiedono grandi risorse, ma il coraggio politico di pestare i piedi (callosi) di qualche interesse costituito.
5) Una postilla (ma non tanto): come far passare le riforme?
Per concludere, si deve tener presente che: “policies matter, but politics too”. Che non bastano precise ipotesi di intervento per l’affermazione della strategia riformista di cui sopra. I riformisti devono investire di più nella ricerca del consenso e nella definizione delle alleanze sociali necessarie per far passare le riforme. Su questo fronte, mi limito a citare tre ingredienti che potrebbero rivelarsi utili. Primo ingrediente: galvanizzare e rappresentare nuovi interessi (giovani, atipici, donne, ricercatori, ecc.), al fine di creare nuove constituencies accomunate dalla domanda del progetto riformista. Secondo ingrediente: elaborare e comunicare un visione d’insieme che tenga insieme i singoli tasselli del progetto riformista (rendendone visibili i benefici e parzialmente accettabili i costi). Terzo ingrediente: rilanciare le ragioni della concertazione, non come fine in sé, ma come strumento per il radicamento del progetto riformista; a patto che il soggetto che si candida a guidare la coalizione di centrosinistra (la federazione/partito riformista) sappia far valere quella che i politologi chiamano “l’ombra della gerarchia”, la volontà di affermare comunque una precisa strategia di riforma. Negli anni ‘90, la “concertazione per il risanamento” è stata efficace perché non ha eluso i costi dell’aggiustamento richiesti dall’ingresso nell’Euro e si è sforzata di ripartirli in una maniera equa che fosse il più possibile equa. Oggi, si tratta di mettere mano a una “concertazione per l’allargamento delle opportunità”, mostrandone con precisione i costi – sotto forma di risorse da reperire e rendite da rimuovere – e tenendo alta la bandiera dei benefici.