Un fantasma si aggira per il dibattito politico italiano. È il fantasma dell’agenda Monti. Un fantasma che 15 parlamentari del Pd hanno cercato di rimettere al centro della discussione con una serie di proposte e iniziative, tra cui si annovera l’assemblea di oggi. In verità, si tratta di un fantasma più per le forze politiche che non per i cittadini. A partire proprio dalle forze politiche che appoggiano il governo Monti, le quali – in particolare le due maggiori – oscillano tra due atteggiamenti.
Quando le cose vanno bene, prevale un atteggiamento di rimozione o sottovalutazione. Si parla di una mera parentesi tecnica per gestire l’emergenza, di un esecutivo composto da persone sobrie e presentabili, o – sul piano dei contenuti – di una politica incentrata sul rigore di bilancio. Rigore a cui la politica, come ha dichiarato Pierluigi Bersani questa settimana, dovrà presto aggiungere più lavoro, più equità e più diritti. Senza specificare come. E soprattutto in quale rapporto con le iniziative del governo Monti, che hanno inciso a 360 gradi sull’economia e sulla società italiane.
Ma accanto a questo atteggiamento di sottovalutazione, ce n’è un secondo, quando le cose vanno male, di vera e propria critica o di malcelato fastidio (per la serie: queste benedette riforme fatele pure, ma non parlatene troppo in giro). Ed ecco allora la litania contro il rigorismo fine a se stesso, contro il governo che prende ordini da Berlino, o la macelleria sociale dettata dai tecnocrati di Bruxelles.
Questo atteggiamento ambivalente è massimo nel Pdl, che deve sottostare agli sbalzi di umore (o meglio: agli sbalzi di sondaggi) di un leader, Silvio Berlusconi, la cui volatilità e inaffidabilità hanno raggiunto toni caricaturali. Ma non è certo assente nel Pd, dove è impersonificato per esempio dalle posizioni di Stefano Fassina (e lo dico senza spirito polemico, visto che si tratta di un politico che porta avanti con grande chiarezza e coerenza un battaglia politica più che legittima). Un giorno, Fassina riscopre la non tanto felice ambiguità tra partito di lotta e di governo, partendo lancia in resta contro l’attacco ai diritti e all’equità messo in atto dal governo. Poi, il giorno dopo, si chiede che cosa sia mai questa fantomatica “agenda Monti” e se per caso la si trovi in cartoleria.
Di sicuro, l’agenda Monti non è in cartoleria. Ma altrettanto di sicuro, anche un cartolaio (al pari di tutti gli italiani escluso il responsabile economia del Pd), se interrogato, saprebbe dirvi di che cosa stiamo parlando. Perché gli italiani hanno imparato a conoscere e a fare i conti con l’agenda Monti.
L’agenda Monti non è l’agenda di Mario Monti e dei suoi futuri incarichi istituzionali. L’agenda Monti non è neanche la lista delle riforme del governo (alcune riuscite altre meno; alcune realizzate altre meramente abbozzate). L’agenda Monti è uno spartiacque e una cartina di tornasole.
È uno spartiacque perché, in prima battuta, sancisce il fallimento del governo Berlusconi. Ma in seconda battuta sancisce il fallimento collettivo della Seconda Repubblica e di due decenni di scelte non fatte. Tanto che molti italiani hanno una reazione allergica quando sentono parlare di “ritorno della politica”, senza che la politica dia il minimo segnale di aver imparato la lezione.
È una cartina di tornasole perché, data l’ampiezza degli interventi del governo e dato il tentativo di inserirli in una visione d’insieme (tentativo a volte riuscito, a volte meno), è impensabile presentare al paese una proposta per il futuro senza confrontarsi appunto con l’agenda Monti.
Uno dei lasciti più importanti del cambio di passo rappresentato dal governo Monti, secondo me, è tutto politico: al 100% politico. E ha a che fare con uno stile di governo che ha cercato di usare un linguaggio di verità, mettendo gli italiani di fronte a uno specchio, senza nascondergli i loro problemi. A volte, lo si è fatto con qualche limite, come un eccesso di tono professorale o un eccesso di enfasi sui sacrifici, sulle riforme lacrime e sangue. Ma il cambio di stile c’è stato.
Credo che ognuno di noi, se ripensa ai propri periodi di crisi personale o professionale, ai propri fallimenti, si ricorda di due tipi di amici. Ci sono quelli che ti dicono che va tutto bene, che “poverino non è colpa tua”: è tutta colpa del destino cinico e baro o di qualche cattiva compagnia. Poi, ci sono quelli che ti dicono che, beh, se ti ritrovi sempre nei casini, magari sarà un po’ anche colpa tua, che dovresti approfittarne per scuoterti, per cambiare, per scoprire potenzialità nascoste. Se ripensiamo a quei momenti, è probabile che gli amici del secondo tipo ci abbiano fatto infuriare. Ma di solito è a quelli che siamo ancora riconoscenti, mentre gli amici del primo tipo non ci hanno lasciato granché.
Ebbene, la Seconda Repubblica e due decenni di scelte non fatte nascono dal fatto che i politici si sono spesso comportati come amici superficiali (interessatamente superficiali), incapaci di parlare con schiettezza agli italiani. E non tutti sembrano aver capito la lezione, visto che tornano ad affacciarsi al capezzale di un paese in crisi tanti falsi amici pronti a vendere capri espiatori. Non vi preoccupate – ci dicono – la crisi non è colpa vostra: sono i cinesi che vi rubano il lavoro sottocosto; è la grande crisi che nasce dall’avidità della finanza, dal liberismo selvaggio (e poco importa che il liberismo visto in Italia fosse abbastanza addomesticato); è tutta colpa dell’euro e dei tedeschi che si stanno arricchendo alle vostre spalle. Ma dopo Monti questo linguaggio demagogico e autoconsolatorio appare stonato. Dopo che si è conosciuto un amico che ti parla con schiettezza e ti invita a scuoterti, è difficile farne a meno.
Una politica che dimostri di aver imparato la lezione, e che si candidi a raccogliere il testimone del governo Monti, dovrebbe ripartire proprio da qui: da un linguaggio di verità . Dicendo che i nostri problemi non vengono da fuori, ma che siamo stati bravi a crearceli da soli con 20 anni di scelte non fatte. Che aggredirli oggi significherà raccoglierne i frutti tra altri 20. Ma che dobbiamo farlo perché non c’è altra strada se vogliamo garantire ai nostri figli e a chi verrà dopo di loro benessere e un futuro in cui tutti siano liberi di far vivere il proprio desiderio.
Questo grafico cattura abbastanza plasticamente quello che cerco di dire (è un grafico che rielabora un tweet di Thomas Manfredi, economista dell’Ocse con una passione per la discussione pubblica 2.0). In entrambi i riquadri – quello di sinistra per l’Italia e quello di destra per la Germania – la linea blu cattura la compensazione totale per il fattore lavoro e la linea rossa cattura la produttività del lavoro. Il succo è che, nell’arco temporale della Seconda Repubblica, dal 1994 al 2011, le due linee sono andate a braccetto in Germania, un po’ meno (per usare un eufemismo) in Italia, dove la produttività ha semplicemente mostrato un elettroencefalogramma piatto. E non è un caso che nello stesso periodo il costo del lavoro per unità di prodotto sia cresciuto del 40% in Italia e del 5% in Germania. Tutta colpa dei tedeschi? Nossignori, è colpa del nostro elettroencefalogramma piatto sulla linea della produttività. È questo il vero spread che dovrebbe occupare le prime pagine dei giornali e i talk show televisivi
Può l’agenda Monti dopo Monti aiutarci ad aggredire anche questo spread? Sì, a patto di metterla prima a fuoco e poi a frutto. È questo il compito che ci siamo dati con l’iniziativa di oggi, a partire dal documento preparatorio che Pietro Ichino ed Enrico Morando hanno consegnato alla nostra discussione.
Per raccogliere la provocazione di Fassina, in questi giorni sono andato davvero in cartoleria a comprarmi un’agenda e ho provato a immaginare che cosa potremmo trovare scritto in una fantomatica agenda Monti per gli anni che ci aspettano. E dico “anni” perché questo è uno dei primi motivi per cui l’agenda Monti non si compra in cartoleria: perché il suo orizzonte temporale la renderebbe troppo ingombrante. Perché le riforme che servono al paese per fare in modo di completare, tassello dopo tassello, il progetto riformista avviato in questo anno di governo richiederebbero un investimento lungo almeno due legislature. Ma vediamo di sfogliarla un po’: l’agenda Monti dopo Monti.
Aprile 2013: trasparenza, trasparenza, trasaparenza.
Appena insediato il governo dell’agenda Monti dopo Monti dovrebbe aggredire quello che finora non è stato fatto, semplicemente perché il compito era stato appaltato ad altri. La politica aveva promesso di mettere ordine a casa propria, nei sui meccanismi di selezione e nei suoi costi. Ma niente è arrivato. Allora, per essere davvero credibile sul cammino delle riforme, la politica dovrebbe partire proprio da qui: diventando una casa di cristallo. Ovvero, approvando immediatamente un provvedimento legislativo sull’esempio dei Freedom of Information Acts britannico e statunitense, estendendo a tutte le amministrazioni statali, regionali e locali (ivi inclusi i gruppi parlamentari e consiliari) l’obbligo di una totale trasparenza e rendicontazione di ogni euro di risorse ricevute e utilizzate.
Maggio 2013: convocare tavolo delle parti sociali… per spiegare come si starà al tavolo in futuro.
Uno dei meriti del governo Monti è stato quello di sfatare il tabù della concertazione (anche se non senza qualche passo falso, come nella estenuante “trattativa-non trattativa” sulla riforma del lavoro). Si è cercato di far capire a tutti che la concertazione è uno strumento, non un fine in sé. Uno strumento utile per dialogare con le parti sociali sul cammino delle riforme, a patto che il cammino sia chiaro e indicato dal governo dall’alto della sua responsabilità politica. Altrimenti, la concertazione finisce per avvitarsi in un gioco di veti incrociati, diventanto un macigno sulla strada del cambiamento.
E allora il governo dell’agenda Monti dopo Monti dovrebbe ripartire da qui: convocando subito le parti sociali per spiegargli che dal loro contributo si aspetta molto e che intende coinvolgerle nella sua azione di governo, all’interno di regole chiare e fissate una volta per tutte però. Su ogni maggiore intervento di riforma, il governo presenterà un libro bianco con le linee direttrici su cui intende procedere. Dopodiché il libro bianco sarà consegnato alla discussione pubblica con il paese, e allo stesso tempo si aprirà un tavolo di concertazione con le parti sociali per raccogliere consigli su come implementare al meglio ogni provvedimento. Ma senza mettere in dicussione la strategia complessiva d’intervento o sottoporla a rinvii e contrattazioni estenuanti su ogni singolo punto.
Insomma: (1) si presenta la filosofia d’intervento; (2) si ascoltano suggerimenti su come realizzarla; (3) si procede all’interno di tempi certi e prestabiliti nel dare attuazione a riforme su cui il governo si gioca la propria credibilità di fronte al paese.
Giugno 2013: al primo vertice europeo giocare la carta dell’unione politica per risolvere il “dilemma del prigioniero”.
Un altro grande merito del governo Monti è la ritrovata credibilità del nostro paese in Europa. Spesso, si attribuisce questo risultato al “fattore loden”, al prestigio e alla sobrietà del presidente del consiglio. Non è (solo) questo: la credibilità di Monti e dell’Italia è derivata dall’aver saputo far intravedere una possibile via d’uscita condivisa dalla crisi in cui l’Europa si è avvitata. Monti (e Draghi) hanno indicato all’Europa un’ipotesi di leadership che possa risolvere, se mi perdonate il gergo da scienziato sociale, il “dilemma del prigioniero” in cui ci siamo impantanati. Il dilemma del prigioniero è un fallimento nel coordinamento verso il raggiungimento di un obiettivo mutuamente vantaggioso. Come nel caso di due imputati catturati dalla polizia: se entrambi non confessano, se la caveranno con poco (perché la polizia ha raccolto solo prove indiziarie contro di loro); ma se uno dei due confessa e l’altro no, quello che tiene la bocca chiusa si becca una pena pesantissima. Ecco quindi che entrambi finiscono per confessare (temendo che lo faccia anche l’altro), anche se sarebbero stati molto meglio non confessando.
L’Europa, oggi, si dibatte in un dilemma di questo tipo. La Germania e le nazioni del centro dovrebbero “cooperare” accettando un po’ più d’inflazione a casa loro e un euro leggermente più debole (a patto che la Fed lo consenta), per dare respiro ai paesi della periferia che devono compiere un aggiustamento pesante dei salari relativi. Le nazioni periferiche, dal conto loro, dovrebbero “cooperare” facendo i compiti a casa, sotto forma di nessun passo indietro sul rigore di bilancio e di riforme che aggrediscano i nodi della crescita e della produttività. Il problema è che nessuno si fida dell’altro “prigioniero”. I paesi del centro hanno paura che inflazione o svalutazione (anche leggere) siano usate dai paesi periferici per tornare a fare quello che hanno sempre fatto: finanziare a debito una crescita che non sanno costruire in altro modo. I paesi periferici hanno paura che il rigore non serva a niente, senza l’aiuto di un po’ di espansione monetaria, perché rischiano di avvitarsi in una spirale recessiva senza fine. Ebbene, da questo dilemma, si esce solo con più Europa. Con più Europa politica. Con una maggiore condivisione delle politiche economiche e di bilancio. E con una leadership forte che sappia indicare perché ognuno deve cedere qualcosa in vista del raggiungimento di un obiettivo condiviso.
E come potrebbe essere credibile un governo dell’agenda Monti dopo Monti nell’indicare questa leadership, questa via d’uscita? Semplice: presentandosi al primo vertice europeo dicendo che il tema della condizionalità del meccanismo anti-spread (cui l’Italia farà ricorso o meno sulla base della volatilità dei mercati) non è un tema d’interesse per il nostro paese. Perché quelle condizioni l’Italia le ha già fatte proprie nell’interesse degli italiani e degli europei.
Gennaio 2014: c’è la riforma del fisco da completare. Tassare di più chi detiene ricchezza, meno chi la produce.
Da tempo, sappiamo che il nostro fisco è squilibrato: tassa troppo chi produce ricchezza e troppo poco chi detiene ricchezza. Non solo per ragioni di comparazione internazionale, ma anche per ragioni di equità entro e tra generazioni, questo squilibrio va superato. Il governo Monti ha compiuto il 50% di questo aggiustamento aumentando l’imposizione sulla ricchezza immobiliare. Per questo va detto con chiarezza che la patrimoniale c’è già, si chiama Imu e va mantenuta. Adesso, serve l’altro 50% di questa strategia, destinando annualmente ogni euro derivante dalla lotta all’evasione e dai risparmi d’efficienza nella pubblica amministrazione alla riduzione delle tasse su imprese e lavoratori. Su questo occorre essere chiari. Basta con il “gioco delle tre carte” per cui ogni proposta di spesa, dalle politiche industriali a nuove forme di tutela sociale, è finanziata con i proventi della lotta anti-evasione. Queste risorse, che devono essere quantificate annualmente, vanno destinate a un unico scopo: ridurre la pressione fiscale e niente altro. E lo stesso vale per i risparmi di spesa che si possono ottenere con una seria strategia di accorpamenti delle strutture amministrative e l’uso su larga scala del benchmarking comparativo.
In questa cornice di riduzione del carico fiscale sul reddito da lavoro, si dovrebbero altresì sperimentare forme di riduzione differenziata per le donne e per i giovani. In Italia, i tassi di occupazione femminile e giovanile sono tra i più bassi in qualsivoglia comparazione internazionale. Liberare queste risorse sottoutilizzate potrebbe permetterci di agganciare subito il treno di quella che gli economisti chiamano “crescita estensiva” (basata su aumenti nell’utilizzo dei fattori produttivi), in attesa della “crescita intensiva” basata su aumenti della produttività e dell’innovazione.
Febbraio 2014: universalismo selettivo, dopo il “meno pensioni” arriva il “più welfare”
Sulle pensioni, non si può e non si deve tornare indietro. Uno dei meriti del governo Monti è stato quello di portare a termine una serie di riforme importanti avviate dai governi Amato e Dini. Il completamento è arrivato troppo tardi, salvando intere generazioni dai costi di aggiustamento verso l’equilibrio finanziario del nostro sistema previdenziale, ma è un bene che sia finalmente arrivato. Guardate: sui giornali si legge spesso questa storia sul basso “debito implicito” (creato dalle spettanze verso le generazioni future delle nostre politiche economiche) nel nostro paese. Si sente dire: che cosa vogliono mai questi tedeschi rispetto al nostro debito pubblico, visto che se si guarda al debito implicito siamo uno dei paesi più virtuosi d’Europa? Ma il punto è che il combinato disposto di un alto stock di debito pubblico dal punto di vista finanziario e di un basso debito implicito ha un solo nome in italiano: “furto intergenerazionale”. Vuol dire che intere generazioni sono scappate con la refurtiva lasciando il compito di ripagare il buco alle generazioni successive. È andata così: inutile tornarci sopra. A patto che sia chiaro che cosa è successo e che cosa bisogna fare adesso.
Il governo dell’agenda Monti dopo Monti, dopo che è arrivato il “meno pensioni”, dovrebbe completare il mantra riformista che ci ha accompagnato negli ultimi decenni dandoci il “più welfare”. Serve un sistema di ammortizzatori sociali universali (la riforma Fornero è un primo passo in questa direzione, ma ancora insufficiente); nuove politiche per le sacche di povertà crescenti; nuovi servizi per infanzia e non autosufficienza. Ovviamente, c’è il nodo delle risorse, che non possono arrivare da nuove tasse. E neanche possono arrivare da meri recuperi di efficienza nella gestione della burocrazia, per i motivi detti prima. L’unico modo è far seguire alla spending review del governo Monti una spending view dove la spesa corrente venga fortemente riallocata: chiedendo a chi può farcela da solo di compartecipare al finanziamento di certi servizi (dall’università alla sanità) con forme di universalismo selettivo e anche sperimentando forme di sostegno alla domanda privata attraverso voucher che coprano parzialmente il costo del servizio. Certo, il nodo della selettività si scontra con la capacità dello stato di accertare chi ha davvero bisogno e chi, invece, può farcela da solo. Per questo, si dovrebbero sperimentare meccanismi per cui chi accede a servizi sottoposti alla prova dei mezzi venga automaticamente incluso in una lista di contribuenti sottoposti a controlli dettagliati del reddito e della ricchezza effettiva.
Giugno 2014: referendum lavoro, tornare indietro? No, grazie!
Anche sul lavoro deve essere chiaro che non si torna indietro. Serve un “no” convinto al referendum contro la riforma Fornero. Un “no” di merito, non di metodo o meramente “politicista” (per cui il referendum è vissuto come uno strumento per mettere in imbarazzo il Pd). Ci sono limiti nella riforma Fornero, a partire dall’eccesso di affidamento sulla decisione discrezionale dei giudici, che rischia di non cambiare le aspettative di imprese e lavoratori. Ma la riforma ha fatto passare l’idea che la sfida della sicurezza nel nuovo mercato del lavoro si gioca nel mercato e non con la difesa a oltranza di posti che è impossibile tutelare per legge (una promessa ingannevole che non possiamo più permetterci). La produttività del lavoro ha bisogno di una maggiore mobilità del lavoro da aziende decotte verso aziende più produttive. E questa mobilità è sostenibile solo se ai lavoratori sono offerti servizi di riallocazione e riqualificazione efficienti (secondo le migliori pratiche internazionali) e ammortizzatori sociali degni di questo nome. È su questo terreno che si gioca la sfida delle nuove tutele nel mercato del lavoro, non su illusori ritorni al paradiso perduto (ma in verità mai esistito) del posto garantito per tutti.
Gennaio 2015: agenda digitale, dalle parole ai fatti.
L’agenda digitale, non come nuova “prezzemolina” delle bozze programmatiche ma come insieme di interventi concreti da disegnare nel corso di un programma pluriennale, è un tassello chiave per molte delle riforme di cui abbiamo parlato. Perché solo una pubblica amministrazione 2.0 può essere davvero dalla parte dei cittadini e affrontare seriamente il nodo dei risparmi di spesa. E perché imprese innovative e ad alta produttività, startup o meno che siano, hanno bisogno di infrastrutture immateriali, consumatori e un ambiente diffuso orientato all’innovazione tecnologica. Un ambiente in cui l’accesso alle nuove tecnologie informatiche sia sempre più una normalità nella vita di tutti i cittadini.
Marzo 2018 & Marzo 2023: Scuola, Università, PA.
Su scuola, università e pubblica amministrazione – settori dove ci giochiamo molto se vogliamo aggredire il vero spread, quello della produttività – occorre un programma di lunga lena. In prima battuta, creare sistemi credibili e condivisi di valutazione: degli studenti, delle scuole, dei dipartimenti, dei ricercatori, di ogni struttura amministrativa. In seconda battuta, garantire la massima autonomia nel raggiungimento degli obiettivi e introdurre elementi incentivanti a partire da forti differenziazioni salariali.
L’unica differenza tra scuola e università riguarda gli strumenti redistributivi. Nell’università, non c’è bisogno di sussidiare le strutture che resteranno indietro appena le risorse cominceranno ad affluire verso le realtà premiate dalla valutazione (anzi, l’obiettivo è quello di penalizzarle per arrivare a un numero ridotto di istituzioni, alcune concentrate sulla ricerca d’eccellenza e altre sull’insegnamento). Grazie al lavoro dell’Anvur e al meccanismo per le abilitazioni nazionali, nell’università si sono già predisposti gli strumenti per identificare i docenti che non producono ricerca da decenni e quelli che, al contrario, competono alla frontiera della ricerca internazionale. Perché non cominciare subito, allora, differenziando il salario e i finanziamenti alla ricerca tra i primi e i secondi, lasciando immutato lo status quo solo per la massa che si trova nel mezzo tra i due estremi?
Nella scuola (dell’obbligo), invece, sarà indispensabile dirottare risorse verso le realtà in difficoltà, usando la valutazione non solo per premiare il merito ma anche per aiutare il bisogno.
Sognando Mario…
Prima di concludere, una domanda: l’Agenda Monti declinata lungo queste linee è compatibile con il concetto classico di centrosinistra? Sì, perché è di centrosinistra aumentare la mobilità sociale in una società bloccata, in cui le condizioni di partenza hanno un peso enorme sulle condizioni di arrivo. Ed è di centrosinistra liberare le risorse bloccate da spese improduttive e non selettive: merito, impegno e bisogno, nell’Italia di oggi, devono combattere gli stessi avversari.
In questi giorni, ho fatto un sogno. Ho sognato che tra 20 anni iniziavo a conoscere i miei nuovi studenti e tra loro ce n’era uno un po’ timido e impacciato, ma dallo sguardo vispo. Scoprivo che si chiamava Mario. E capivo che si trattava del Mario che Enrico Morando e Giorgio Tonini ci hanno fatto conoscere nel loro libro “L’Italia dei democratici”. Mario era nato da genitori con solo titolo di media inferiore, lei casalinga (più qualche lavoretto domestico in nero), lui operaio. E sapeva già alla nascita di avere una probabilità di laurearsi infinitamente più piccola rispetto a quella di un suo coetaneo con genitori più istruiti e con un reddito maggiore. Eppure, nel sogno, Mario era lì, a inseguire il sogno di una carriera universitaria e lavorativa che l’appassionava.
E Mario c’era arrivato perché la madre aveva nel frattempo aperto una piccola società di servizi alla famiglia grazie alla liberalizzazione del settore e alla semplificazione burocratica; perché il padre aveva visto aumentare il proprio reddito grazie a una consistente riduzione del peso del fisco e a forme di detassazione selettiva volte a premiare gli aumenti di produttività; e perché lui, Mario, era stato selezionato da un programma fortemente meritocratico che lo manteneva durante gli studi universitari, sulle orme del programma Science Without Borders recentemente lanciato dal Brasile (e cito il Brasile, non gli Stati Uniti, così che tra 20 anni, qualora questo paese ci abbia raggiunto in termini di Pil pro capite, qualcuno non venga a raccontarci che è colpa del liberismo selvaggio…).
Ora, se vogliamo che quello di Mario non resti un sogno, serve una politica che sappia appunto mettere a fuoco e mettere a frutto l’agenda Monti. Da questo nodo non si scappa. È questo l’obiettivo che dobbiamo avere chiaro di fronte a noi. Poi, nel breve periodo, molti di noi sceglieranno strumenti politici distinti per cercare di raggiungerlo. Alcuni, come il sottoscritto, credono che questa politica possa nascere adesso nel Pd grazie alle primarie. Alcuni, altrettanto legittimamente, pensano che possa nascere dopo nonostante le primarie. Alcuni pensano che possa nascere al di fuori del Pd (e oggi sentiremo Andrea Romano in rappresentanza di Italia Futura). Ma in ogni caso, se l’obiettivo è chiaro, si tratterà di verificare empiricamente quale strumento si è poi rivelato più efficace. E ci sarà così modo di riprendere battaglie e proposte politiche comuni all’insegna della condivisione di un obiettivo comune.
Va letta in questa luce anche la recente dichiarazione di Mario Monti da New York: “se il paese avrà bisogno di me, io ci sarò”. Dichiarazione che ha infastidito un po’ i fautori del ritorno della politica duro e puro. Il punto è che il governo Monti è stato un salvagente offerto al paese dopo il naufragio della Seconda Repubblica. Adesso la politica, invece di prendersela con chi rassicura i mercati dicendo che questo salvagente continuerà a esserci anche in futuro, faccia di tutto per risparmiare a se stessa e al paese il secondo naufragio consecutivo.
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