Nel suo stimolante editoriale del 18 maggio, il direttore del Foglio ha esposto argomenti che sollecitano una riflessione sulle politiche economiche del governo Renzi e sui loro effetti sull’economia reale. Provo a riassumere alcuni dei punti sollevati da Cerasa, con una selezione, ovviamente, partigiana. Primo. Numeri alla mano, l’effetto Renzi sulla crescita economica è pari a zero (o giù di lì). Secondo. I timidi segnali di ripresa del primo trimestre 2015 sono legati agli sgravi contributivi introdotti dalla legge di stabilità, non certo agli sgravi normativi del Jobs Act. Terzo. Il bonus degli 80 euro e le altre misure di riduzione della pressione fiscale non hanno prodotto gli effetti sperati di stimolo all’economia. Quarto. Se non si procede con una seria revisione della spesa pubblica, che renda credibili e strutturali i tagli delle tasse, sarà difficile far crescere la nostra economia. Procediamo con ordine.
L’esercizio di attribuire qualsivoglia andamento congiunturale alle scelte dei governi è un gioco di società divertente, ma lascia il tempo che trova. Lo si può fare dopo un po’ di anni e in un’ottica di comparazione internazionale. Ma è pressoché impossibile stimare il “controfattuale”, quello che sarebbe successo all’economia se il governo avesse fatto scelte diverse (o se ci fosse stato un altro governo al suo posto). Cerasa stesso azzarda una stima controfattuale quando scrive che alcuni imprenditori hanno assunto “persone che senza sgravio non avrebbero mai assunto”. Stima che fa pensare che l’effetto Renzi non sia proprio zero, almeno nell’immediato. Per carità, sugli effetti economici delle scelte dei governi ognuno può dire la sua. Ma siamo nel campo delle opinioni e tutto sta in come vengono motivate.
Cerasa prosegue sommando gli effetti sulla crescita del Pil attribuibili a (1) quantitative easing della Bce, (2) calo del prezzo del petrolio, (3) Expo e (4) piano Junker sugli investimenti, per concludere che la somma è pressoché identica al 2 per cento di crescita cumulata previsto per il biennio 2015-16. Ne consegue che l’effetto Renzi è pari a zero. Anche stendendo un velo pietoso sulla credibilità scientifica di alcune delle stime citate, aggregare tra loro fonti e metodologie così diverse (Bankitalia, Confcommercio, Prometeia) significa sommare mele con pere. Il totale non può che essere una macedonia impazzita. I compagni anglosassoni chiamerebbero questa metodologia “cherry-picking”. Metodologia in base alla quale, proprio perché una ciliegia tira l’altra, si può dire quello che si vuole. Come insegna Darrell Huff nel suo magistrale “How to Lie with Statistics”, non c’è niente di più facile che stiracchiare le statistiche per sostenere qualsiasi cosa. Cerasa si ferma a un punto d’equilibrio magnanim, vicino allo zero. Ma avrebbe potuto continuare senza sforzi, stima dopo stima, ciliegia dopo ciliegia, per dimostrare che l’effetto Renzi è negativo, perché gli effetti attribuibili a fattori esterni alle scelte del governo sono di fatto superiori al 2 per cento.
Così come non costerebbe grande fatica il cherry-picking di segno opposto, volto a dimostrare gli effetti positivi del governo Renzi. Proprio ieri, il Fondo monetario internazionale ha rivisto al rialzo le sue stime sulla crescita italiana per il 2015-16, citando – insieme alle cause esterne di cui sopra – anche le riforme del governo tra i fattori in grado di favorire l’inizio della ripresa. Sempre ieri, l’Istat ha annunciato che nel mese di marzo le nostre esportazioni sono cresciute di oltre 9 punti percentuali su base annua, trainate dagli Stati Uniti (per via del dollaro forte e di alcune commesse congiunturali) ma anche dai paesi dell’area euro, segno che la competitività di una parte del nostro sistema produttivo resta forte. I dati Inps sulle assunzioni mostrano un’impennata della percentuale di contratti a tempo indeterminato sul totale dei nuovi rapporti: 48,2 per cento nel marzo 2015 (a Jobs Act in vigore) contro il 34,1 del marzo 2014, ma anche contro il 37 (gennaio) e il 42,4 (febbraio) dei mesi del 2015 in cui operavano i soli sgravi contributivi. E una semplice estrapolazione fa ben sperare che il trend possa continuare. Per carità: Cerasa ha ragione nel sostenere che il Jobs Act è solo in minima parte responsabile dei dati del primo trimestre, ma gli stessi dati indicano che il combinato disposto degli sgravi contributivi e del contratto a tutele crescenti sta iniziando a dispiegare effetti positivi sulle stabilizzazioni, che si vedranno in maniera più accentuata nei prossimi mesi. E ancora: i dati sul Pil diffusi da Eurostat una settimana fa, anche se limitatamente a un solo trimestre, indicano un’Italia che cresce al pari della media europea, smettendo di essere il fanalino di coda. È la prima volta che avviene dal secondo semestre del 2012, anche se allora – purtroppo – quella rondine non indicò nessuna primavera. Crescere come la Germania di un mero 0,3 per cento in un trimestre non sarà granché per i palati più raffinati, ma resta il fatto che i nostri partner si sono avvantaggiati degli stessi fattori esterni (Draghi, dollaro, petrolio) di cui abbiamo goduto noi. Ecco quindi due obiettivi da consolidare nei dati annuali: crescita in linea col resto d’Europa e stime che vengono riviste al rialzo e non viceversa.
E qui mi fermo. Forse, la cosa più saggia da fare è sotterrare l’ascia di guerra (statistica) e allargare un po’ lo sguardo. Per analizzare la visione di fondo che muove la politica economica del governo Renzi e quali risultati possiamo aspettarci dalle scelte che ne conseguono, nel breve e nel medio periodo. Per farlo, dobbiamo distinguere le misure di natura congiunturale da quelle di natura strutturale.
La stagnazione della nostra economia nasce da due decenni di scelte non fatte. Farle adesso è una priorità assoluta. Ma non possiamo illuderci: proprio a causa del tempo perduto, molte riforme produrranno i loro effetti positivi sulla crescita potenziale nell’arco di anni; alcune – e c’è da augurarselo – nell’arco di decenni. Questo non vuol dire che dobbiamo stare fermi. Anzi. La determinazione politica nel procedere spediti sul sentiero delle riforme nasce proprio dal disappunto per i decenni sprecati che ci lasciamo alle spalle. Nello stesso tempo, affinché l’economia italiana non arrivi prostrata al traguardo finale, è importante mettere in campo misure congiunturali – di stimolo ai consumi e agli investimenti – che diano sollievo a famiglie e imprese nell’immediato. Anche all’interno di un nuovo quadro europeo che, a partire dal semestre italiano di presidenza, sappia valorizzare lo scambio virtuoso tra riforme e flessibilità di bilancio nel breve periodo.
Dal lato delle riforme strutturali, dopo decenni di convegnistica più o meno brillante, si vedono finalmente scelte concrete. Una legge elettorale che garantisca maggioranze certe e responsabilizzi la politica. Una riforma costituzionale che superi le inefficienze del bicameralismo paritario e della conflittualità tra livelli di governo. Una riforma del lavoro che superi il dualismo tra protetti e precari, proteggendo i lavoratori in un mercato sempre più dinamico ma non per questo meno inclusivo. Una riforma del fisco che cominci a rendere le norme più certe per imprese, famiglie e investitori internazionali, per poi proseguire il percorso di riduzione del carico fiscale sui fattori della produzione. Riforme della pubblica amministrazione e della giustizia che rimuovano lungaggini e inefficienze, liberando imprese e cittadini da oneri impropri. Riforme della scuola e dell’università che rafforzino gli investimenti sul merito e sul capitale umano, favorendo autonomia e responsabilità. Su tutti questi fronti, il cantiere è aperto, ma è innegabile che si sia già fatto molto. In alcuni casi, l’edificio è concluso, mancano solo le rifiniture. In altri, siamo alle fondamenta, ma c’è una chiara volontà di accelerare con i lavori di costruzione.
Molti di questi interventi, come detto, produrranno effetti sulla crescita potenziale soltanto nel medio periodo. Ma è lì che ci giochiamo tutto: su quella che gli economisti chiamano crescita “intensiva”, l’unica sostenibile a lungo perché basata su un aumento della produttività e della competitività. Senza contare che, al di là delle misure congiunturali che potremo adottare, l’Italia ha anche due risorse inutilizzate per creare crescita “estensiva” nel breve periodo, se solo si aggredissero i nodi della sotto-occupazione femminile e della sotto-utilizzazione delle risorse nel Mezzogiorno. La tanto decantata Spagna, in fondo, al momento sta raccogliendo frutti soprattutto sul sentiero della crescita estensiva.
Prendiamo i due esempi citati da Cerasa: Jobs Act e revisione della spesa (per valutare gli effetti del bonus degli 80 euro dovremo aspettare studi più approfonditi e basati su metodi scientificamente credibili). L’obiettivo principale del Jobs Act è quello di aggredire il dualismo, ma ciò non toglie che, insieme agli sgravi contributivi, nei prossimi mesi potrà favorire le assunzioni a tempo indeterminato, in un periodo in cui la ripresa è ancora incerta nelle aspettative degli imprenditori. È il motivo per cui riforme di questo tipo servono proprio in tempi di vacche magre, come sostiene il Nobel per l’economia Pissarides e a differenza di quanto sostiene l’ex Presidente del consiglio D’Alema (che le riforme non le ha fatte neanche in tempi di vacche grasse). Ma, detto questo, gli sgravi contributivi e il Jobs Act basteranno per creare lavoro nel lungo periodo? No. Perché l’ingegneria contrattualistica non crea da sola posti di lavoro (al massimo non ne ostacola la creazione). E perché sgravi contributivi totali (sia pure nel limite di 8.060 euro) sono una chiara misura congiunturale. Qualche giorno fa, mi è capitato di definirli una “droga”. Alcuni commentatori della domenica hanno letto questo commento come una critica ex post. Ma questo significa non capire la distinzione tra interventi congiunturali e interventi strutturali. In un periodo di crisi, quella droga serve. Protrarla all’infinito, tramutandola in un intervento strutturale, creerebbe disincentivi perversi, favorendo una rotazione continua della forza lavoro e scoraggiando gli investimenti in capitale umano.
Nel futuro, quindi, servirà una misura strutturale che riduca il cuneo contributivo, per non lasciare il corpo dell’economia debilitato quando la droga (benefica) degli sgravi verrà superata. Per esempio, tanto per fare un’ipotesi puramente indicativa e del tutto personale, potrebbe servire una riduzione strutturale del cuneo contributivo sul tempo indeterminato a tutele crescenti di 6 punti percentuali, 3 a carico del datore e 3 a carico del lavoratore. Favorendo nello stesso tempo l’investimento dei 3 punti a carico del lavoratore in previdenza complementare, in modo che i tassi di sostituzione pensionistici non risentano di questo parziale opting out dal primo pilastro. Se non si riduce il risparmio forzoso nel primo pilastro favorendo lo sviluppo del secondo, è difficile pensare di poter ridurre il cuneo contributivo in maniera strutturale. O perché non ci sono risorse per fiscalizzare i tagli per sempre, o perché ci si deve affidare a tagli settoriali e congiunturali che producono più distorsioni che effetti benefici se vengono estesi all’infinito.
Sulla spending review, Cerasa ha ragione. Il cantiere è ancora aperto. E questa sarà una delle cartine di tornasole fondamentali. Ma non è semplice tagliare la spesa senza effetti recessivi di breve periodo e con interventi che siano politicamente sostenibili nel lungo periodo. Una spending review credibile non è solo un esercizio ragionieristico o di tagli agli sprechi, è innanzitutto un ripensamento degli obiettivi che la politica assegna alla spesa pubblica e una riforma delle istituzioni preposte a gestire tale spesa. Le politiche camminano sulle spalle degli individui chiamati ad applicarle. E gli individui rispondono agli incentivi. Occorrerà incidere su tutta la catena, o sarà difficile non ricadere nella scorciatoia dei tagli lineari.
Riforme strutturali, tagli permanenti del cuneo fiscale e contributivo, spending review credibile e sostenibile, misure volte ad aumentare la produttività totale dei fattori: è questo l’unico mix di politica economica che può rimettere in moto la lumaca Italia. Non ci resta che crescere. E cresceremo.