Sotto gli ombrelloni nasce di tutto: oggi, grazie ai social media (e agli smartphone), nasce anche qualche polemica. Sabato, leggendo un editoriale del direttore del Tempo Mario Sechi, mi è partito un tweet un po’ pepato: «Separare speculatori da investitori. Wow ideona». Il direttore si è legittimamente risentito e ha risposto da par suo. Ne è nato un dibattito a più voci con spunti interessanti (gli appassionati di archeologia telematica lo possono ricostruire dagli account @TNannicini o @masechi). Ripropongo la vicenda non (solo) per zelo polemico. Ma perché mi sembra utile ad avanzare un argomento di merito.
Tre le risposte di Sechi. Primo: il sottoscritto non sa niente di finanza. Secondo: gli economisti (categoria di cui faccio parte) non hanno il senso della realtà. Terzo: la proposta di separare banche tradizionali e d’affari è all’ordine del giorno negli ambienti che contano (leggi, Wall Street). Rispondo velocemente perché non sono i punti del mio contendere. Primo: lo confesso, di finanza capisco poco (come ha scoperto a sue spese mia madre quando mi ha chiesto consigli), ma per polemizzare con quell’editoriale basta essere cittadini informati. Secondo: capita che gli accademici pecchino d’astrazione, ma è curioso che la critica arrivi da giornalisti che corrono lo stesso rischio, somigliando un po’ ad accademici meno secchioni. Terzo: la proposta di separazione bancaria è sensata, non tanto perché se ne discuta a Wall Street (non è un nido di speculatori?), ma perché può limitare i conflitti d’interesse e ridurre il peso politico di soggetti regolati che finiscono col catturare i regolatori.
La mia critica al pezzo di Sechi, tuttavia, riguardava altro. Gli editorialisti sono opinion leader e i loro argomenti pesano. Le parole sono importanti perché creano orientamenti culturali che poi incidono sulle scelte politiche. Secondo Keynes, ai suoi tempi la politica economica rispondeva alle idee di economisti morti. Oggi, grazie all’aumento dell’istruzione e a nuovi strumenti d’informazione, i tempi si sono accorciati: le cattive idee fanno danni più velocemente, e lo stesso vale per le buone.
Scrivere che «il sistema finanziario oggi è popolato in prevalenza da speculatori e non da investitori», e che occorre separare i primi dai secondi, dà l’illusione che sia possibile distinguere i buoni dai cattivi. Non è così. Qualsiasi investimento ha una componente speculativa e produttiva, in dosi diverse. Anche la mera speculazione, riducendo i margini di arbitraggio nei mercati o evidenziando i punti deboli di debitori riottosi come gli stati sovrani, può svolgere una funzione positiva. Non sfugge a nessuno che ci siano comportamenti spregiudicati nel mondo della finanza, ma una caccia all’untore serve a poco. E ancora: scrivere che «sui mercati c’è chi gioca sporco in una partita dove gli unici a guadagnare in Europa sono i tedeschi» alimenta uno strisciante sentimento anti-tedesco, dando l’idea che i nostri problemi nascano dall’egoismo teutonico piuttosto che dalla nostra insipienza. Accusare i tedeschi di avvantaggiarsi di spread elevati è come accusare quelli che hanno studiato sodo (mentre noi ci facevamo qualche Spritz di troppo) perché hanno voti più alti dei nostri.
Questi due argomenti non stanno in piedi. E non sarà la stampella della separazione bancaria a farli camminare. Mario Sechi, che è un professionista intelligente, sa bene che il cuore del suo editoriale non risiede in quella proposta. Infatti, quella che sta portando avanti è una legittima operazione di posizionamento (e di proselitismo) politico e culturale. C’è una parte del Paese che ha una gran voglia di trovare colpevoli esterni per le nostre debolezze economiche. I capri espiatori variano in base ai gusti: i cinesi che producono sottocosto, i tedeschi che ci impongono un rigore che avvantaggia solo loro, o l’Euro che ci ha tolto gli strumenti (drogati) della svalutazione competitiva e del disavanzo pubblico finanziato a colpi d’inflazione (la tassa più iniqua che si possa usare a tal fine).
Sono argomenti che definirei “sempancisti”, perché semplificano non per rendere semplici problemi complessi, ma per accarezzare la pancia di un Paese disorientato e impaurito dalla globalizzazione. I sempancisti si annidano in tutti o al di fuori degli schieramenti politici. Si tratta di un’opzione culturale legittima, ma di corto respiro. Ci ha provato in chiave politica il Giulio Tremonti di La paura e la speranza (anche se al momento si segnala soprattutto la paura di chi è rimasto orfano della speranza di vedere Tremonti a Palazzo Chigi), o in chiave letteraria l’Edoardo Nesi di Storia della mia gente. Niente di male, ma non è con qualche capro espiatorio che torneremo a crescere. Tedeschi e speculatori fanno i loro interessi. Noi italiani dobbiamo fare i nostri. Ovvero: non ascoltare le sirene del sempancismo, fare una sincera autocritica collettiva sui ritardi che abbiamo accumulato negli ultimi decenni e tornare a rischiare e innovare, senza il paracadute di rendite che non possiamo più permetterci.
Come ha dichiarato in un’intervista a Repubblica il governatore Ignazio Visco: «Vedo la necessità di rimuovere gli atteggiamenti di conservazione. Noi dobbiamo innovare moltissimo: norme, contratti, tecnologie, processi produttivi, produttività nei servizi ancora dominati da troppe rendite di posizione. Serve quello che io chiamo uno spirito nuovo». Parole semplici. Per niente sempanciste.
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