Il 2023 si è portato via tante cose, tra cui la spinta instancabile, profonda, contagiosa a fare politica di un grande intellettuale come Sergio Staino. Non ci ha portato via il suo sorriso, il cui ricordo è qui con noi a riscaldarci, e non ci ha portato via i lampi del suo pensiero, che restano a illuminarci. Penso invece alla funziona maieutica che sapeva svolgere su molti e molte di noi, quella capacità tutta sua di tirarti fuori la voglia di fare politica, di lottare per cambiare le cose, anche quando la disillusione ti aveva fiaccato le gambe. È con questa assenza, purtroppo, che dovremo imparare a fare i conti. Uno degli omaggi più belli dopo la sua scomparsa sta in una vignetta di Ellekappa, dove Bobo dice a Dio: “allora prima di tutto si fa questo inserto, organizziamo una presentazione, una mostra, un concerto, un dibattito, eh?” E Dio pensa sconsolato: “una volta qui era un paradiso”. Sergio era così. E per questo in tanti e tante lo adoravamo. Perché trovava sempre un modo per affrancarti dalle tue stanchezze, delusioni, paure. Dai compagno, diamoci da fare, non sei solo.
L’attività politica per Staino non era attivismo fine a sé stesso, o peggio voglia di esserci per forza e mettersi in mostra. Era vita. Che cosa significhi ce lo spiega Édouard Louis in un libro forte come un pugno sullo stomaco e dolce come una carezza sulla testa: “Chi ha ucciso mio padre” (Bompiani). L’autore ricorda una giornata di rara e spensierata allegria passata al mare, verso cui tutta la famiglia si era lanciata, in sei su una macchina per cinque, per festeggiare la decisione del governo di far salire di cento euro gli aiuti per il nuovo anno scolastico. Chiosa Louis: “Non ho mai visto le famiglie che hanno tutto andare a vedere il mare per festeggiare una decisione politica, perché la politica a loro non cambia quasi nulla. Me ne sono accorto quando sono andato a vivere a Parigi, lontano da te: i dominanti possono lamentarsi di un governo di sinistra, possono lamentarsi di un governo di destra, ma un governo non gli causa mai problemi di digestione, un governo non gli spacca la schiena, un governo non li spinge verso il mare. La politica non cambia la loro vita, o così poco. Anche questo è strano, fanno la politica e la politica non ha quasi nessun effetto sulla loro vita. Per i dominanti la politica è nella maggior parte dei casi una questione estetica: un modo di pensarsi, un modo di vedere il mondo, di costruire la propria persona. Per noi era questione di vita o di morte”.
Quando ho letto questo passaggio, che arriva dritto al cuore passando per lo stomaco, ho subito pensato a Sergio. E alla storia che amava ripetere di quando aveva visitato il penitenziario di Arezzo e alcuni carcerati gli avevano confessato di essere preoccupati per le imminenti elezioni, perché temevano che il vincitore avrebbe tolto i finanziamenti a un programma di formazione e orientamento che era la speranza che li faceva tirare avanti. Era vita. Questo è il senso della politica. Per questo dobbiamo farla. Per loro. Ti ripeteva a martello alla fine del racconto.
Fare politica per Staino, da uomo di sinistra, voleva dire tenere insieme anarchia e riformismo, sogno e concretezza. Perché il sol dell’avvenire ti serve a illuminare il cammino, a far crescere piante e germogli lungo la strada, ma se pensi di trasferirtici finisci per bruciarti. L’anarchia è il sogno di una società dove non ci sono sfruttati e ognuno è libero nella sostanza dei rapporti sociali, non solo nei diritti scritti sulla carta. Il riformismo è lo studio su come avvicinarsi anche solo di un centimetro a quel sogno: con quali alleanze sociali, con quali compromessi, capendo come far crescere la voglia di rapporti sociali più giusti nel cuore delle persone. L’anarchia senza riformismo è una presa in giro: “starsene con una bandiera rossa in mano sullo scoglio, bella soddisfazione”, per dirla con le sue parole. Ma il riformismo senza anarchia è inciucio, carrierismo, corruttela.
Il primo corollario di questa visione, per Staino, era il compito etico che spettava alla sinistra: quello di selezionare una classe dirigente degna di questo nome. Una classe dirigente che non si limiti “a fare discorsi belli” ma si cimenti con la fatica dello studio, dell’ascolto: una classe dirigente empatica e ferma nei suoi valori di riferimento. Le arrabbiature contro tizio o caio non erano mai personali in Sergio, non erano mai dettate dallo scontro tra opposti narcisismi. Fare politica con superficialità, senza studiare, pensando alla propria carriera piuttosto che ai carcerati di Arezzo: erano queste le cose che lo mandavano su tutte le furie, non certo un’idea diversa dalla sua.
Il secondo corollario di questa visione era la distanza da qualsiasi tentazione populista. “Ho pianto”, ci ha detto una volta per un’iniziativa dell’associazione Volare, quando le nostre e i nostri militanti hanno votato per il taglio dei parlamentari. Perché abbiamo dato cittadinanza all’idea che la politica è qualcosa da tagliare sempre e comunque, indipendentemente dalla sua qualità. Con i grillini, ci disse, dobbiamo allearci, ci mancherebbe altro: ci siamo alleati anche con i monarchici quando c’era da sconfiggere il fascismo! Ma una cosa è allearsi, una cosa è svendere le proprie idee, smarrire il senso di una politica che col “vaffa” e la superficialità non c’entra niente.
Ciao Sergio, continueremo a fare politica come ci hai insegnato tu. E non ti incavolare troppo se, strada facendo, torneremo a fare degli errori. Anzi. Un po’ fallo, perché l’eco delle tue rimbrottate ci arriverà anche da lassù, spingendoci – spero – a far tesoro anche di quegli errori.
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