Cambiare la governance dell’Eurozona: ridurre tasse e rapporto debito/pil, investire sulla crescita
Le terze vie, si sa, sono complicate. Percorrere le vie più trafficate è sempre più semplice. Sull’Europa, però, è proprio una terza via quella che dobbiamo imboccare. Una terza via tra un euro-ottimismo inerte (quello di chi spera che passi la nottata, che l’economia riparta e i consensi dei populisti si asciughino, per tornare a fare quello che facevamo prima, lasciando immutata l’architettura istituzionale e l’insieme delle politiche europee) e un euro-scetticismo peloso (quello di chi trasforma l’Europa nel capro espiatorio di tutti i nostri mali, sperando di lucrare consensi dal disagio economico e sociale). Dire che l’Europa deve cambiare non vuol dire inseguire i populisti. Vuol dire fare quello a cui ogni europeista dovrebbe ambire: caricarsi dell’onere della prova rispetto agli strumenti con cui l’Europa può tornare a creare benessere e giustizia sociale. Perché in politica non sei misurato sulle conquiste di ieri, ma sui problemi che risolvi oggi.
Il seminario organizzato martedì scorso nella sede del Pd, con la presenza di Matteo Renzi e Maurizio Martina, è stato un’occasione per confrontarci sulle proposte da mettere in campo per imboccare questa terza via. Docenti universitari, esperti, politici, sindacalisti, rappresentanti delle categorie produttive: tutti concordi sulla necessità di riformare la governance europea in senso più democratico. Riformando, appunto, e non solo completando l’Unione.
Lo ha spiegato con la consueta lucidità Sergio Fabbrini evidenziando alcune delle contraddizioni del piano Juncker. Non si può invocare il ministro dell’economia europeo e poi inserirlo in una logica intergovernativa (senza interrogarsi su come quello stesso schema non abbia funzionato in politica estera). E non si può invocare una politica fiscale comune pensando di farla con tutti gli attuali o addirittura con nuovi paesi membri (serve uno “sdoppiamento”, per dirla sempre con Fabbrini, tra chi vuole un’Unione ancora più perfetta e chi è interessato solo a un’area di libero scambio). Dobbiamo scegliere. O la prossima crisi sceglierà per noi.
In campo economico, non si tratta di fomentare il derby tra tifosi dell’austerità e della spesa in disavanzo. Ma di riconoscere che un sistema di governance creato per tempi normali ha retto male alla prova della crisi. Dobbiamo ricostruire una doppia fiducia, quella tra paesi e quella tra istituzioni e cittadini. Il nostro obiettivo prioritario dovrebbe essere quello di creare un’Unione fiscale per l’Eurozona. Creando, cioè, una vera e propria istituzione politica di livello europeo che sia in grado di emettere bond per gestire la domanda aggregata e intervenire nelle crisi di liquidità, usando come garanzia flussi futuri di gettito fiscale ceduti dai paesi aderenti. Intendiamoci: questo significa cedere sovranità. Ma cedendola alla politica, a una politica europea che superi la logica intergovernativa.
E nella fase di transizione verso la nuova Unione fiscale, dovremmo convergere verso regole di bilancio allo stesso tempo più semplici e più sanzionabili di quelle esistenti. Regole che non ostacolino politiche congiunturali ben disegnate e accompagnate da riforme strutturali. Lasciando alla politica, nazionale ed europea, qualche margine di scelta trasparente in più. Margine che il Pd vuole usare nella prossima legislatura per rafforzare la crescita continuando a ridurre le tasse e a investire su misure di inclusione sociale. Stando attenti, come ci ha ricordato Francesco Giavazzi, a tutto quello che accompagnerà il dibattito verso il rafforzamento della politica fiscale europea, come la richiesta tedesca (già fermata dal governo italiano negli scorsi anni) di introdurre regole particolarmente draconiane per pesare il rischio dei titoli di stato detenuti dalle banche. Non può esserci scambio tra flessibilità di breve periodo e regole mal disegnate che avrebbero un impatto negativo sulla nostra economia.
Regole più semplici per gli stati membri. E, a livello europeo, un segnale di svolta sulle politiche pubbliche, rafforzando la costruzione del pilastro sociale e facendo sentire la voce dell’Europa rispetto alle spinte disgreganti della competizione fiscale tra paesi e del dumping sociale. Come ha sottolineato Renzi in apertura, dobbiamo tornare con la mente a Ventotene. A un’idea di Europa, cioè, legata alla cooperazione tra stati e a un modello di welfare unico al mondo. Children Union, assicurazione europea contro la disoccupazione, armonizzazione della fiscalità d’impresa e lotta all’erosione internazionale di base imponibile, standard di diritti lungo tutta la catena di creazione del valore aggiunto: ecco l’agenda su cui lavorare.
Quella che ci aspetta nei prossimi mesi sarà una stagione di scelte cruciali per l’Europa: adesso lo scoprono anche i giornali. Quando qualcuno lo faceva presente, domandandosi se fosse nell’interesse dell’Italia arrivarci in mezzo a una campagna elettorale, con parlamento e governo frenati da un orizzonte troppo corto, qualcun altro vi leggeva la bulimia di potere di chi voleva votare subito. Ora tutti scoprono le insidie, per l’Italia, di arrivare a questo appuntamento senza il capitale politico necessario per affrontarlo. Fa lo stesso. Il Pd in questo dibattito c’è e continuerà a esserci con proposte forti, europeiste, dando al governo tutto l’appoggio necessario per fare quanto possibile in un clima in cui l’incertezza elettorale ci toglierà un po’ di forza contrattuale. Basta che quel clima non ci tolga forza progettuale. Per scimmiottare Kennedy, è il momento di essere europeisti senza illusioni.