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Fermiamo la casta populista

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La decisione di accorpare elezioni regionali, amministrative e referendum sulla riduzione dei parlamentari in un’unica data nasce chiaramente dalla paura.

La decisione di accorpare elezioni regionali, amministrative e referendum sulla riduzione dei parlamentari in un’unica data, al di là dello strappo costituzionale che produce, nasce chiaramente dalla paura. La paura di informare le persone sulla vera posta in gioco, con una campagna che vada oltre la vuota demagogia del “taglio delle poltrone”.  La paura che qualcuno capisca la fregatura che la nuova Casta populista vuole rifilare agli elettori per sfuggire a qualsiasi controllo. Conosco l’obiezione: la classe politica è incapace, poco trasparente e lontana dalla vita delle persone. Spesso è così (anche se non sempre), ma la soluzione non è cambiare un tanto al chilo la Costituzione nata dalla Resistenza. Il numero dei parlamentari si poteva anche ridurre, ma dopo una riforma sensata che riavvicinasse gli eletti agli elettori e migliorasse il funzionamento delle istituzioni, cioè la capacità del governo di fare scelte e del Parlamento di indirizzarle e controllarle. Invece si è optato per un taglio lineare che renderà la nostra politica, e i nostri politici, peggiori. Perché? Per svariati motivi.

I territori meno abitati e più periferici, nonché gli italiani all’estero, non avranno rappresentanti a cui far arrivare le proprie istanze. L’Italia diventerà il paese europeo col peggior rapporto tra eletti ed elettori. Alla fine – ed ecco la fregatura – i parlamentari saranno scelti dai vertici dei partiti in poche liste bloccate, spezzando qualsiasi legame con i territori e premiando i fedelissimi a scapito delle competenze. Non solo. Il Parlamento, che già adesso è fortemente svilito nelle sue funzioni, funzionerà ancora peggio. Le commissioni parlamentari saranno ridotte all’osso e incapaci di controllare la qualità delle leggi, col risultato di avere leggi ancora più incomprensibili, tempi più lunghi e meno risposte ai cittadini. E i governi saranno ancora più deboli e in balia ai trasformismi, soprattutto al Senato dove balleranno di continuo per i capricci di due o tre senatori. E non si dica che poi arriveranno i “correttivi”, come la fiducia a camere riunite e tanti altri. Se li si volevano, ci sarebbe stato tutto il tempo per farli.

Ma questi elementi di merito – che sarà complicato far arrivare agli elettori con una campagna estiva e accorpata alle regionali – non possono nascondere la vera battaglia dietro a questo referendum. L’impianto culturale della riforma è figlio dell’antiparlamentarismo di chi vede le istituzioni come inutili orpelli e del populismo di chi vede nella politica qualcosa di sporco sempre e comunque (salvo quando la fa lui, con scarsa trasparenze e competenza). Da che mondo è mondo, questo impianto culturale è antitetico a quello dei progressisti. Per questo se qualcuno crede che sinistra voglia dire dignità della politica e non demagogia anti-politica, voglia dire rispetto delle istituzioni e non loro sostituzione con una piattaforma digitale privata, voglia dire lavoro e non sussidio, beh, questo qualcuno ha molte ragioni per votare “no” al referendum.