Gridare alla deriva ungherese o al pericolo democratico perché si toglie alla Corte dei Conti il controllo concomitante (fatti salvi tutti gli altri controlli) farebbe sorridere, se non segnalasse una preoccupante mancanza di contenuti da parte di chi usa questi argomenti. Per carità, agire sugli equilibri tra pubblica amministrazione e giustizia contabile a colpi di fiducia non è elegante, e farlo a colpi di emendamenti è di solito foriero di pasticci. Ma ciò non esime nessuno da contribuire alla discussione in maniera non dico utile, ma almeno poco dannosa.
Il Pnrr sarà una grande occasione mancata non solo perché quei soldi (in buona parte presi a debito) finiremo per spenderli male, ma perché un programma di spesa di siffatte dimensioni in tempi così stretti avrebbe dovuto innescare una grande riflessione collettiva su ragioni e modi dell’intervento pubblico in Italia. Riflessione che non si è vista né adesso né nella scorsa legislatura, quando c’era un governo semi-tecnico sorretto da una maggioranza di unità nazionale.
Ci sono due patologie di cui facciamo fatica a liberarci. La prima è quella di scrivere le norme che disciplinano il rapporto tra Stato ed economia (appalti, fisco, welfare) basandoci sulla patologia piuttosto che sulla fisiologia. Le leggi fiscali non sono scritte per semplificare la vita ai contribuenti onesti, ma per permettere a qualche ufficio decentrato di interpretarle come gli pare per dare la caccia agli evasori. Le norme sugli appalti non sono scritte per permettere agli amministratori del bene comune di raggiungere i propri obiettivi, ma per rendere la vita difficile ai corrotti. È un approccio che impedisce all’intervento pubblico di generare valore, creando costi sociali enormi in un periodo in cui il progresso tecnologico dovrebbe essere controbilanciato da Stati efficienti e orientati ai risultati. Questo non vuol dire che non si debbano combattere evasione e corruzione (cosa che peraltro non ci riesce bene con norme spesso piegate a uso e consumo dei più forti), ma che lo si debba fare con strumenti diversi. Un corollario di questa patologia, infatti, è l’assoluta mancanza di una cultura della valutazione nel pubblico. I risultati non contano, solo le carte bollate.
La seconda patologia è l’assoluta perdita di consapevolezza del confine tra politica e burocrazia. Burocrati, magistrati, rappresentanti di autorità indipendenti si ricordano bene della loro autonomia quando devono difendere prerogative corporative, un po’ meno quando c’è da telefonare a qualche politico per farsi sponsorizzare. Lo stesso vale per la definizione dell’indirizzo politico, che in teoria spetta a Governo e Parlamento. Non si contano, invece, le riunioni su leggi già pubblicate in Gazzetta Ufficiale, in cui i burocrati chiamati ad attuarle ci tengono a farti sapere che non le condividono e faranno di tutto per ritardarne o impedirne l’attuazione.
La Ragioneria generale dello Stato (Rgs) è un caso di scuola. Un organismo burocratico da cui passano tutte le maggiori decisioni di politica economica, e che tiene in scacco il Parlamento con argomentazioni fintamente tecniche o arrogantemente procedurali, salvo poi piegarsi gioco forza alle logiche della politica. Non si spiegherebbe altrimenti il buco da 40 miliardi prodotto con i bonus edilizi e allegramente bollinato dalla Rgs. Un buco peraltro prevedibile e prodotto da una misura iniqua. E non si spiegherebbero altrimenti le relazioni tecniche della Rgs che sovrastimano sistematicamente la spesa previdenziale e sottostimano gli incentivi agli investimenti, col risultato che a parità di miliardi di spesa pubblica ai lavoratori e ai pensionati arriva sistematicamente meno, alle imprese di più. Insomma, c’è molta politica dietro a certe relazioni tecniche, peccato che nessuno sia chiamato a votare chi le scrive e chi viene votato non sappia controllarle.
La colpa di tutto questo non è dei burocrati, ma dei politici. Nove volte su dieci sono loro che, per mancanza di forza o competenza, non riescono a rivendicare ed esercitare la funzione per cui sono eletti e pagati. Le due patologie di cui sopra sono figlie della debolezza della politica. Ma per ridare forza alla politica avremmo bisogno di riforme istituzionali capaci di ridarle autorevolezza (migliorando la qualità di chi ci rappresenta) e autorità (dando strumenti efficaci sia a chi governa sia a chi controlla). Peccato che questo obiettivo non piaccia a tutti. Molti interessi costituiti non vogliono una politica capace di cambiare lo status quo. E molti politici non vogliono una politica autorevole, perché loro faticherebbero a farne parte.