Per dare seguito alle decisioni di questi mesi, l’Unione Europea dovrà cambiare radicalmente.
La crisi economica e sociale innescata dalla pandemia da Covid-19 ci ha mostrato che, per fortuna, l’Europa c’è. La lezione della doppia crisi del 2008 e del 2011 non è passata invano. Allora, l’Unione Europea le sbagliò tutte. Prima del “whatever it takes” di Mario Draghi, la stessa Banca Centrale Europea si era mossa in ritardo rispetto alle altre autorità di politica monetaria in giro per il mondo, facendoci mancare una forte spinta espansiva. Ma le autorità di politica fiscale, cioè i governi nazionali e la Commissione per mero coordinamento, si mossero ancora peggio. Mentre gli Stati Uniti si lanciavano in una forte politica espansiva per tutto il periodo dal 2009 al 2012, nella testa dei leader europei, già nell’ottobre del 2009 al vertice di Goteborg, c’era solo il tema del consolidamento fiscale, cioè di come rientrare dai deficit creati da politiche espansive prese in maniera frettolosa e scarsamente coordinata dopo il fallimento di Lehman. Al G20 di Toronto nella primavera del 2010, la divisione fu plastica: Obama parlava di crescita e fragilità della ripresa, la Merkel solo dei rischi legati a un eccesso di indebitamento pubblico. In Europa non solo non si poteva parlare di Eurobond, ma la parola “crescita” era un tabù nei documenti ufficiali, come se quella mera invocazione fosse un cedimento al lassismo dei paesi del Sud. Invece di usare i margini di flessibilità esistenti nei trattati per fare politiche anti-cicliche di fronte a una crisi eccezionale, l’Unione Europea si preoccupò solo di inasprire un sistema sempre più barocco di regole fiscali: Six-Pack nel settembre 2010, Two-Pack nel novembre 2011, Fiscal compact nel dicembre 2011. In due anni, le regole sulla disciplina di bilancio passarono da meno di 30 a più di 120 pagine, con l’aggiunta di indicatori statistici, come il famigerato output gap, alla cui stima – sempre difficile e discrezionale – si sono finite per affidare le tasse e i servizi dei cittadini europei. Insomma: austerità über alles. Risultato: la morte della politica.
Questa volta, di fronte alla crisi da Covid-19, la storia è stata diversa. La Commissione ha subito sospeso le regole fiscali e quelle sugli aiuti di stato. La Bce ha messo in campo dal primo minuto una forte spinta espansiva. Il Parlamento ha votato atti di indirizzo per la creazione di Eurobond e di una qualche forma di Unione fiscale, cioè di una politica di bilancio europea in grado di coordinarsi con quella monetaria. Il Consiglio, sia pure tra mille tentennamenti legati alla sua logica intergovernativa, ha alla fine varato un Recovery Fund che di quella Unione fiscale potrebbe davvero rappresentare un embrione (perché una volta che la macchina di un vero bilancio europeo, con tanto di facoltà di indebitamento e di tassazione, si sarà messa in moto, come avvenne negli Usa con il New Deal, sarà difficile fermarla). Insomma, si è finalmente fatta vedere una terza via tra l’euro-ottimismo di maniera di chi sperava che, passata la nottata, tutto sarebbe potuto tornare come prima e l’euro-disfattismo di chi dipingeva l’Europa come il capro espiatorio di tutti i mali, e non vedeva l’ora di usare questa occasione per rottamare il progetto di una nuova sovranità europea. Detto questo, l’opera non è che all’inizio e può ancora naufragare. Per dare seguito alle decisioni di questi mesi, l’Unione Europea dovrà cambiare radicalmente. E dire che l’Europa deve essere rivoltata come un calzino non vuol dire inseguire i populisti. Vuol dire fare quello a cui ogni europeista dovrebbe aspirare: caricarsi dell’onere della prova rispetto agli strumenti con cui l’Europa può tornare a creare benessere e giustizia sociale. Perché in politica non sei misurato sulle conquiste di ieri, ma sui problemi che risolvi oggi.
Questa consapevolezza dovrebbe essere più presente nella politica italiana, che si trova di fronte a uno snodo storico, a scelte che avranno un impatto enorme sulle future generazioni di italiani e di europei. Spesso per la nostra classe politica – maggioranza od opposizione cambia poco – l’Europa è vista come un bancomat, non come un progetto politico. Si deve andare a Bruxelles a prendere i soldi, che devono arrivare senza condizioni, e poi scappare per tornare a Roma e spenderli in mille rivoli dettati dalla ricerca del consenso. Ma i soldi del Recovery Fund non vengono da Marte, arrivano dal futuro. Come europei, li stiamo prendendo in prestito dalle future generazioni. E come europei dovremo spenderli con responsabilità e consapevolezza. Per creare lavoro, non per disperderli in sussidi. Per favorire l’occupazione di giovani e donne, non per sostenere aziende decotte. Per favorire investimenti produttivi nella transizione ecologica e digitale della nostra economia, non per dare aiuti a pioggia ai soliti settori protetti. Insomma, non chiediamo, come italiani, di ricevere soldi senza condizioni dal bancomat Europa. Ma chiediamo, come europei, che quei soldi siano spesi per aumentare benessere e giustizia sociale. Poniamo le nostre condizioni. Rispolverando un ben inteso internazionalismo, che fa rima con socialismo.