Il Presidente del consiglio, nel discorso con cui ha ottenuto la fiducia del Parlamento, ha richiamato l’Europa in termini generici, sostenendo che “in Europa diremo anche dei No”, ma non ha fatto riferimento a nessuno dei delicati temi che sono sul tavolo delle cancellerie europee, dalla revisione del Fiscal compact alle discussioni sull’Unione bancaria e su quella fiscale.
Tutte partite difficili, ma da giocare con risolutezza. Per l’Europa l’ora della ricreazione è davvero finita. Occorre muoversi lungo il tracciato indicato da Mario Draghi, Philip Lane (governatore della Banca d’Irlanda e presidente dell’European Stability Board) e Romano Prodi. Il primo ha detto chiaramente che è necessario completare l’unione bancaria e avviarsi verso qualche forma di unione fiscale. Il secondo ha proposto l’emissione di nuovi titoli di debito formati da un paniere di titoli di Stato dei paesi europei. Il terzo ha proposto l’emissione di social bonds (al di fuori delle attuali regole fiscali) per il finanziamento di investimenti in edilizia scolastica, sanità ed edilizia sociale. Draghi, Lane, Prodi: ecco il tridente d’attacco che serve all’Europa.
C’è il timore fondato, tuttavia, che la politica economica del nuovo governo seguirà una strategia del tutto diversa, per la serie: l’Italia è un paese sovrano e come tale deve essere libero di spendere quanto vuole; se l’Europa dovesse impedircelo o i mercati dovessero fare le bizze con lo spread (che perlopiù è deciso dai complotti della finanza internazionale e non dalle ansie legate al nostro debito pubblico), saremo costretti, alcuni di noi volenti altri nolenti, a uscire dall’Euro. Fine della partita. Con buona pace dei costi sociali che un’uscita unilaterale imporrebbe sulle fasce deboli dei lavoratori e dei risparmiatori italiani. Le interviste rassicuranti del neoministro dell’economia non bastano. Servono scelte concrete e, soprattutto, passi indietro rispetto alle promesse elettorali di Lega e 5 Stelle. Ci sono solo due modi per finanziare flat tax, reddito di cittadinanza, pensioni anticipate per tutti, abolizione degli aumenti Iva, tagli delle tasse alle imprese: far finta di farli ma poi inventarsi mille paletti che ne snaturano gli effetti; oppure far saltare il banco, uscire dall’Euro con l’illusione di risolvere tutto stampando moneta.
Questo approccio è non solo sbagliato ma pericoloso. Punta a uno scontro frontale e immediato con l’Ue quando, invece, la discussione sul completamento della moneta unica richiede meno propaganda, più serietà e approfondimento. Ci sono voluti dieci anni per entrare nell’Euro e anche se volessimo uscirne (e non è la nostra opinione) ce ne vorrebbero altri dieci. Molto di più dei dieci giorni paventati per via delle dichiarazioni o degli atti avventati di qualcuno che ha preso il potere, sì, ma senza un mandato degli elettori per uscire dall’Euro.
È per questo che nei giorni scorsi, insieme a Giovanni Dosi e Andrea Roventini (quest’ultimo ministro dell’economia in pectore dei 5 Stelle durante la campagna elettorale), abbiamo scritto una lettera aperta che dice sostanzialmente due cose: le regole europee del Fiscal Compact, incentrate su una visione rigida dell’austerità che ha ostacolato politiche keynesiane di natura anti-ciclica, hanno fallito, ma si deve restare nell’Euro senza se e senza ma. Una lettera scritta da quattro economisti con idee diverse, ma accomunati dalle valutazioni di cui sopra. Qui espandiamo il ragionamento con alcuni punti che impegnano solo noi due.
Primo. L’Europa ha fatto troppo poco per uscire rapidamente dalla crisi, ma l’Italia non è riuscita neanche a fare le politiche anti-recessive che altri paesi hanno comunque abbozzato, andando in procedura d’infrazione, per via del fardello del nostro debito. I risultati di due decenni di avanzi primari ci insegnano che dobbiamo mettere la crescita, e non l’austerità, al centro. Ma questo non vuol dire dimenticarsi del debito pubblico, la cui riduzione deve proseguire in maniera graduale e costante, anche se più lentamente di quanto imposto dalle attuali regole europee. Proprio chi ha a cuore l’utilizzo della spesa pubblica in tempi di vacche magre dovrebbe preoccuparsi della sostenibilità del debito in tempi di vacche grasse.
Secondo. Gli interessi dell’Italia si difendono con più Europa, non uscendone. Un paese con il nostro debito sarebbe il primo a beneficiare di una vera Unione fiscale che gestisca la domanda aggregata a livello di area Euro. Ma per giocare questa partita dobbiamo mettere a fuoco i problemi dell’Italia. Partiamo da un dato: l’Italia è l’unico paese dell’Ue, insieme alla Grecia, a non aver recuperato il livello del Pil pro-capite precedente alla crisi. La crescita degli ultimi quattro anni non è bastata per recuperare; tuttora, siamo sotto di 9 punti percentuali rispetto al 2008. In questo quadro, è normale che il riflesso politico sia il rigetto per le classi dirigenti. Non si danno casi, in tempo di pace, in cui un paese abbia tollerato una discesa così brusca del suo tenore di vita senza essere scosso da pericolose torsioni politiche. E non serve a granché dire che negli ultimi quattro anni l’Italia è tornata a crescere. Non serve se poi quella crescita è ancora concentrata in alcune zone del paese (più al Nord che al Sud), nelle città piuttosto che nelle province, e nelle aziende più forti – i campioni dell’export – che sono troppo poche per poter redistribuire quella ricchezza a una maggioranza che ha visto declinare il suo reddito. E non serve a granché dire che i paesi che hanno ridotto la spesa pubblica invece di alzare le tasse sono cresciuti più di noi. Indubbiamente si può ancora tagliare spesa improduttiva, ma se il problema vero è la distribuzione della ricchezza, va detto che l’80% della redistribuzione avviene attraverso pensioni e assistenza. E ciò comporta che è complicato tagliare la spesa in maniera sostanziale senza alterarne ulteriormente la distribuzione dei benefici. Per farla corta: recuperare quei 9 punti percentuali di reddito che ancora ci mancano è un problema solo italiano o anche europeo? È la politica europea che deve dare una risposta. In fondo, la stessa moneta unica è stata una costruzione politica, frutto di compromessi più che di tecnicismi.
Terzo. Invocare margini di flessibilità di bilancio non vuol dire tornare all’Italietta che si illude di creare crescita potenziale con spesa in deficit e inflazione. La sfida della crescita ce la giochiamo altrove: riforme, aggiustamento della specializzazione produttiva e della dimensione delle nostre imprese, investimenti, scuola e pubblica amministrazione. Ma ciò non toglie che nel breve periodo possano servire politiche di sostegno alla domanda aggregata, investendo in istruzione, capacità produttiva e sostegno all’occupazione, piuttosto che in pensioni facili e redditi di cittadinanza. Se guardiamo a Jobs act, previdenza e reddito di inclusione, l’Italia non ha niente da invidiare alla tanto decantata Spagna in termini di riforme, ma i cugini iberici hanno potuto fare più deficit durante la crisi e questo li ha aiutati a ritrovare prima il sentiero della crescita. L’Europa deve facilitare anziché ostacolare questo processo. Altrimenti nel lungo periodo, quando si dovranno raccogliere i benefici delle riforme, saremo – questa volta, sì, keynesianamente – tutti morti.
Un conto è fare queste considerazioni, secondo noi del tutto ragionevoli, un conto è usare l’Euro come capro espiatorio: la moneta unica non c’entra con le difficoltà di crescita e produttività dell’Italia nel lungo periodo. Abbiamo problemi che vengono da lontano e che siamo stati bravi a crearci da soli. Prova ne è che tutti gli altri paesi dell’area Euro (tranne la Grecia), anche quelli con strutture industriali più povere della nostra, hanno ormai superato i livelli di reddito del 2008. Dare la colpa al tasso di cambio è troppo comodo. Paradossalmente anche i tedeschi, che negli anni 2000 erano il malato d’Europa, a quel tempo davano la colpa al cambio dell’Euro appena introdotto, e poi si è visto come è andata a finire.