Al di là delle polemiche, la proposta di patrimoniale presenta limiti e difetti. Il principale è che va a colpire gli individui con dichiarazioni alte ma non tocca l’elusione, le multinazionali e i redditi improduttivi. Ogni ipotesi che voglia andare in questa direzione non può prescindere da una revisione dei valori degli immobili.
Durante il primo picco dei contagi, il parlamento si mise a litigare sulla proposta Delrio-Melilli di un contributo di solidarietà per i redditi sopra 80mila euro (salvo poi approvare i bonus a pioggia del governo, che beneficiavano anche chi aveva redditi sopra quella soglia…). Dopodiché non se ne fece nulla. Intanto, nel mezzo del secondo picco litighiamo sulla proposta Fratoianni-Orfini di un’imposta progressiva per i patrimoni sopra 500 mila euro. Facile prevedere che non se ne farà nulla anche a questo giro.
Il problema è che se continuiamo a giocare con le bandierine estemporanee sarà difficile riformare il fisco per renderlo più equo, progressivo, orientato alla crescita e non alle rendite improduttive.
Per carità, la politica si nutre di simboli. Il Parlamento, però, non dovrebbe essere la sede delle provocazioni intellettuali, ma delle misure concrete, giuste e fattibili. Esiste il tema di rendere più giusta la nostra tassazione sulla ricchezza, sgravando allo stesso tempo quella sul lavoro e sugli investimenti? Sì, esiste e l’emendamento ha il merito di porlo. Lo si risolve con un’imposta personale e progressiva sul patrimonio mobiliare e immobiliare che sostituisca l’IMU e il bollo sulle comunicazioni bancarie (le due patrimoniali che già ci sono)? No, perché sommare due patrimoniali imperfette non ne crea una perfetta. Tanto per iniziare, dovremmo capire che cosa non funziona con le tasse che già ci sono.
La prima regola aurea delle patrimoniali è che si fanno e non si annunciano. La seconda regola aurea è che, se si vuole fare un’operazione di giustizia sociale, le si fanno bene, pensandole all’interno di una riforma complessiva del fisco e della spesa pubblica.
I limiti della proposta di cui si discute sono due: la tempistica e l’assenza di una visione complessiva in cui inserirla senza far danni. Aumentare qualsiasi tassa nel mezzo di una recessione epocale, senza ridurre la pressione fiscale sul lavoro e chi lo crea, senza fare in modo che le risorse vadano ai più fragili e non ad Alitalia, non è un grande trovata. Il governo ha già annunciato il varo di una legge delega sul fisco: non dovrebbe essere quello il luogo dove discutere su come tassare la ricchezza e, ripeto, le rendite improduttive?
Ma facciamo un passo indietro. La patrimoniale sulla ricchezza immobiliare già c’è. Si chiama IMU e ha due problemi: il buco sulla prima casa indipendentemente dal suo valore (sì, lo so, è stato un errore fatto nella scorsa legislatura) e le tante iniquità che derivano da rendite catastali non aggiornate. Ci sono case nei centri urbani che hanno valori troppo bassi, case in periferia che hanno valori troppo alti. Non è un tema che dovrebbe interessare la sinistra?
Nella scorsa legislatura era già pronta una riforma del catasto, tra l’altro moderata perché imponeva la parità del gettito a livello comunale, ma non se ne fece niente per la paura che qualcuno si potesse lamentare a Porta a Porta delle tasse che aumentavano, anche se per quel qualcuno sarebbe stato giusto che aumentassero. Fu un altro errore. Ma senza ripartire dalla riforma del catasto, qualsiasi patrimoniale sugli immobili creerà iniquità.
Servono banche dati aggiornate in tempo reale (e pubbliche come negli Stati Uniti) per tracciare gli scambi. E anche se è giusto che le tasse si basino su valori catastali non sottoposti alle fluttuazioni del mercato, basterebbe aggiornare il catasto sulla base dei valori di mercato con una media mobile decennale, ogni dieci anni quindi, non ogni trenta o quaranta. Ma per farlo ci vogliono, appunto, banche dati affidabili e regole certe.
Rispetto al buco della prima casa, l’emendamento Fratoianni-Orfini introduce un principio giusto: l’esenzione non è legata al numero di immobili, ma al loro valore. È giusto introdurre una franchigia che esenti dall’imposta solo un valore “medio” della prima casa, al di sopra del quale si può tranquillamente pagare qualcosa. Dopodiché, quale sia il valore giusto per l’esenzione andrebbe capito dati alla mano.
Il problema dell’emendamento, però, è che la fa troppo facile usando il criterio personale. L’unico effetto positivo di una tassazione personale potrebbe essere quello demografico, spingendo i ricchi a fare figli per spalmare il patrimonio su più beneficiari (sto scherzando eh, di questi tempi è il caso di specificarlo).
Per questo di solito si usa un’aliquota proporzionale, anche alta ma proporzionale. Che, come in Olanda, potrebbe essere fatta imputando un rendimento “medio” ai beni posseduti per scoraggiare impieghi improduttivi. Evitando forme di doppia imposizione: negli Stati Uniti se possiedi un immobile paghi una marea di tasse locali, ma poi le detrai completamente da quella federale che devi pagare se metti a frutto l’immobile. Insomma, ogni patrimoniale va disegnata per minimizzarne elusioni ed effetti distorsivi. Giocare a dadi con i numeri non basta.
L’altro tema riguarda la ricchezza mobiliare, che può sfuggire in mille modi e in mille luoghi, non necessariamente in paradisi fiscali. Il modo migliore per evitarlo, di nuovo, non è giocare a dadi, ma introdurre in dichiarazione dei redditi lo stato patrimoniale (come propongono da anni, tra gli altri, Guido Tabellini e Andrea Tavecchio), così come avviene oggi per i beni posseduti all’estero nel quadro RW.
Tra l’altro, per la ricchezza posseduta in Italia, lo si potrebbe tranquillamente fare in modalità precompilata, mediante banche dati aggiornate e trasparenti. Poi, si dovrebbero rafforzare e utilizzare al meglio gli accordi per lo scambio automatico di informazioni tra paesi. Senza tutto questo, qualsiasi patrimoniale non morde. Resta sulla carta.
Da ultimo: vogliamo combattere davvero le distorsioni “non egualitarie” del fisco? Piuttosto che aggredire a caso i patrimoni con una progressività finta, se non ho gli strumenti per misurarla, pensiamo a come tassare le successioni (vale a dire il passaggio tra generazioni di opportunità e diseguaglianze). E a come tassare le multinazionali. Le tasse di successione in Italia hanno franchigie altissime, di fatto non si pagano. Discutiamone: bene, una volta per tutte e senza annunci a casaccio che spaventano soltanto.
Le multinazionali continuano a pagare poche tasse grazie alle opportunità elusive che nascono dalla facoltà di spostare la base imponibile a proprio piacimento: in attesa di accordi internazionali più stringenti, serve una “minimum tax” in chiave anti-elusiva che faccia pagare le tasse in Italia a chi vende e produce in Italia.
Se lo fanno un carrozziere o un pasticciere, possono farlo anche Netflix o Alibaba (ne ho discusso su Repubblica tempo fa). E già che ci siamo potremmo ridurre il beneficio fiscale sul tabacco riscaldato, che in Italia è uno dei maggiori al mondo e beneficia una singola multinazionale. E rivedere la norma sul “patent box”: ha senso che Ferrari e Campari non paghino tasse per la rendita del marchio? Non si dovrebbero incentivare solo i frutti di ricerca e sviluppo?
Insomma, non si capisce perché a sinistra sembri sempre così sexy tassare gli individui che hanno numeri apparentemente “grossi” in qualche dichiarazione (anche se quei numeri arrivano dal loro lavoro e dall’onestà di dichiararli) e non sia altrettanto sexy ridurre i vantaggi delle multinazionali, le rendite improduttive – magari ereditate per mera linea dinastica – o l’elusione. Certo, è più difficile, ma la nostra capacità di fare redistribuzione dai ricchi ai poveri passa da lì, non dagli interventi improvvisati. Vogliamo provare a fare (non solo dire) qualcosa di sinistra? Riformiamo il catasto.
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