Alla fine della fiera, il Jobs act è diventato un po’ una «riforma Gorbaciov»: molto amata all’estero, meno in patria.
Quando venne approvato il reddito di cittadinanza, le critiche di merito all’impianto di quella riforma erano già chiare. E non parlo delle critiche ideologiche sul “divanismo” e sul fatto che non si debba dare un reddito ai poveri sennò non lavorano. Quelle critiche erano pretestuose in un paese dove la più grande lacuna del welfare era proprio l’assenza di un reddito minimo di ultima istanza per chi si trova fuori dal mondo del lavoro e in condizioni di fragilità sociale: una lacuna che l’Unione Europea denunciava da anni nelle sue raccomandazioni sull’Italia (raccomandazioni che, guarda caso, vengono ascoltate solo quando ci chiedono di tagliare le pensioni, non di aiutare chi ha bisogno e magari va poco a votare). Non solo: quelle critiche erano addirittura incomprensibili quando arrivavano da sinistra e da chi aveva realizzato il reddito di inclusione, che, per quanto sotto-finanziato, era stata la prima riforma che aveva colmato quella lacuna (e non a caso, prima della riforma grillina, il Partito democratico aveva presentato come primo disegno di legge della XVIII legislatura un intervento per completare il reddito di inclusione raddoppiandone le risorse). Parlo di altre critiche: quelle giuste, che fin dall’inizio aggredivano nel merito un impianto sbagliato; un impianto che faceva confluire in un’unica misura “ibrida” il sostegno alla povertà e le politiche attive del lavoro, per colpa sia dell’ideologismo dei 5 Stelle sia dei compromessi al ribasso con la Lega nel governo giallo-verde. Erano queste le critiche dell’Alleanza contro la povertà in Italia, che denunciava come il reddito di cittadinanza, rispetto a quello di inclusione, prevedesse “maggiori risorse” (che ci volevano) ma disegnasse “peggiori risposte” (di cui non si sentiva certo il bisogno). Erano queste le critiche del Pd, che ricordava come non tutti i disoccupati fossero poveri e non tutti i poveri fossero occupabili. E che l’illusione di aiutare disoccupati e poveri con uno strumento unico avrebbe finito per servire poco o niente sia agli uni sia agli altri.
Va quindi accolto con favore il ripensamento di Luigi Di Maio che in un lungo intervento programmatico sul Foglio ha spiegato come sia “opportuno in questa fase ripensare alcuni meccanismi separando nettamente gli strumenti di lotta alla povertà dai sostegni al reddito in mancanza di occupazione”. È un’inversione di rotta radicale rispetto alla retorica del reddito di cittadinanza come strumento di sostegno alla disoccupazione, che non ha mai avuto senso, perché se i Robot brutti e cattivi ti rubano il lavoro non si capisce perché ti debbano rubare anche la casa, rendendoti povero, prima che lo Stato ti aiuti: per i disoccupati c’è il sussidio di disoccupazione (che in Italia si chiama Naspi e va rafforzato per i giovani e per gli over 50), che non deve essere sottoposto alla prova dei mezzi e deve essere integrato con servizi intensivi di orientamento e formazione. Ben venga, quindi, questa inversione di rotta. Sbagliare è umano, perseverare un po’ meno. Le dichiarazioni di principio, però, non bastano. Serve un disegno alternativo e scelte conseguenti per realizzarlo.
Ma facciamo un passo indietro. Nella scorsa legislatura, i governi a guida Pd investirono più di due miliardi sul rafforzamento della Naspi (D.Lgs. 22/2015) e altrettanti sull’introduzione del reddito di inclusione (D.Lgs. 147/2017), allargando nello stesso tempo alcuni istituti di welfare per il lavoro autonomo (L. 81/2017) e strumenti di integrazione salariale in costanza di rapporto per piccole imprese e lavoratori che prima ne erano privi (D.Lgs. 148/2015). E creando un nuovo disegno di politiche attive del lavoro, con una rete nazionale coordinata da una nuova agenzia (Anpal) e un assegno di ricollocazione che non è mai decollato (D.Lgs. 150/2015). Una serie di interventi legislativi ambiziosi che ruotavano intorno al cosiddetto Jobs act. Che cosa ha funzionato e che cosa meno? Il disegno era giusto, ma sia il capitale politico sia il capitale finanziario furono investiti in maniera insufficiente e asimmetrica sui diversi ingredienti di quel disegno. In particolare, i limiti di fondo sono stati quattro: 1) poche risorse finanziarie (ignorando che le riforme a costo zero esistono solo negli editoriali degli economisti); 2) una scarsa integrazione tra politiche attive e passive (che avremmo dovute vivere come complementi e non come sostituti); 3) conflitti non sciolti tra Stato e regioni (in attesa di una riforma del Titolo V che non è mai arrivata, si è persa l’occasione di strutturare una rete veramente nazionale); 4) una narrazione politica tutta sbilanciata sull’ingegneria contrattuale e sull’articolo 18 (che ha ostacolato un analogo investimento di capitale politico sugli ammortizzatori sociali e sulle politiche del lavoro).
Alla fine della fiera, il Jobs act è diventato un po’ una «riforma Gorbaciov»: molto amata all’estero, meno in patria. E non è un caso che sia andata così. La narrazione iniziale con cui il governo Renzi introdusse quella riforma nel dibattito pubblico era molto sbilanciata verso la necessità di persuadere interlocutori esterni: i partner europei che dovevano garantirci margini di flessibilità di bilancio in cambio di riforme strutturali, o le multinazionali che dovevano investire nel nostro Paese. Ci si è preoccupati meno di persuadere i beneficiari di ammortizzatori sociali più inclusivi, di politiche attive che non lasciassero nessuno da solo nella fatica del cambiamento, e di semplificazioni che aiutassero a superare il dualismo tra contratti garantiti e non garantiti. Tutti ingredienti che c’erano, ma sui quali si investì poco capitale politico e alla fine pochi soldi. Per chi continua a condividere i principi che hanno ispirato quella riforma, la sfida è quindi duplice: migliorare gli strumenti, non tutti rivelatisi efficaci, con i quali è stata realizzata; ricostruire una narrazione politica che recuperi il taglio inclusivo e universalistico del suo disegno originario. Ma questo è il punto da cui partire: al di là delle bandierine di questa o quella forza politica, e ammettendo gli errori che ci sono stati, quell’impianto è davvero condiviso come le parole di Di Maio sembrano far pensare? Se non rispondiamo a questa domanda, è difficile capire che cosa dobbiamo fare.
Se qualcuno cerca una risposta a questa domanda nelle azioni del Piano Nazionale di Riforma (PNR) elaborato dall’attuale governo, beh, questo qualcuno può smettere di cercare. È inutile girarci intorno. Leggendo il PNR e i documenti che preparano le riforme sulle politiche del lavoro, si ha l’impressione che il governo navighi a vista. E per di più nella direzione sbagliata. I contributi raccolti in questo dossier, invece, una risposta la danno. Di fronte agli effetti devastanti della pandemia e agli enormi cambiamenti che attendono il mondo del lavoro, l’impianto riformista della scorsa legislatura va rilanciato in modo ambizioso. Superandone limiti ed errori. Investendoci soldi e idee fresche, ma all’interno di una cornice chiara.
Il nostro sistema di ammortizzatori sociali va ripensato per superarne la frammentazione categoriale e le troppe iniquità che ancora si porta dietro (tra dipendenti e autonomi, tra imprese piccole e grandi, fra settori e condizioni soggettive). Disegnando un unico strumento di garanzia del reddito per ognuna di queste quattro platee: 1) lavoratrici in costanza di rapporto; 2) disoccupati; 3) autonomi, 4) persone in condizione di povertà. Per il punto 1 rimando alla proposta Astrid. Per il punto 3 rimando al disegno di legge del Cnel. Mi concentro sul 2 e sul 4, disoccupati (inclusi i giovani in cerca di prima occupazione) e poveri.
Per i disoccupati, i veri dimenticati degli interventi emergenziali durante la pandemia, ci sono Naspi e Dis-coll da potenziare, facendole confluire in un unico “reddito di formazione”. Rovesciandone la logica attuale. Non più sussidi con condizionalità che nessuno controlla, ma un percorso fatto di bilancio e certificazione delle competenze, orientamento, formazione e sostegno alla mobilità. Un percorso personalizzato da proporre a chi cerca un lavoro, permettendogli di accedere a una garanzia del reddito più forte di quella esistente solo se lo accetta. In particolare, il reddito di formazione non prevede la forte riduzione mensile della Naspi, fornisce una copertura più lunga agli over 50 ed è più facile da ricevere per i giovani in cerca di prima occupazione (che non devono aspettare 4 anni di contribuzione piena prima di ricevere una garanzia del reddito che permetta loro di formarsi e mettersi in gioco).
Certo, per fare questa rivoluzione, si devono cambiare radicalmente i processi con cui vengono erogati e valutati i servizi del lavoro e della formazione, come dettagliano Rossella Cappetta e Maurizio Del Conte in questo dossier. È necessario prevedere un sistema che leghi in stretto raccordo l’orientamento, la formazione e l’accompagnamento al lavoro. Per questo servono politiche del lavoro basate su un disegno strategico di banche dati interoperabili e sul loro utilizzo con tecniche alla frontiera della ricerca. E serve un sostegno alla mobilità per permettere a lavoratrici e lavoratori di spostarsi laddove ci sono opportunità di lavoro adeguate alle loro conoscenze e ai loro sogni. Facendo confluire tutti questi interventi personalizzati in un “codice di cittadinanza attiva” che raccolga le politiche attive, passive e formative che ognuno di noi riceve lungo il ciclo di vita: una bussola dei diritti del lavoro che ti segua e si adatti al tuo percorso. Senza questo cambio di passo non daremo risposte alle sfide che evidenziano Romano Benini e Titti Di Salvo.
Tra l’altro, solo mettendo al centro la persona è possibile che l’esercizio effettivo del diritto al lavoro non si infranga contro le barriere frapposte tra un livello e l’altro: centro e periferia, pubblico e privato, istruzione e lavoro, e così via. In assenza di una riforma del Titolo V che riporti il diritto alla salute, al lavoro e alla formazione tra le competenze esclusive dello Stato (fermo restando un decentramento amministrativo), si può costruire lo stesso una rete veramente “nazionale” di politiche del lavoro e della formazione, come evidenzia Benini. E il reddito di formazione può essere proprio la leva per farlo.
Per i poveri, infine, se proprio non si vuole dare al Reddito di cittadinanza il suo vero nome di “Reddito minimo” di ultima istanza (come viene chiamato in tutti i sistemi maturi di welfare), si faccia almeno una manutenzione straordinaria del suo impianto. Togliendo il vincolo di dieci anni di residenza che è profondamente discriminatorio per gli stranieri che danno un contributo al nostro Paese; cambiando la scala d’equivalenza per aiutare le famiglie numerose e i minori in condizioni di povertà; riducendo l’incentivo ai single occupabili; e allentando i vincoli patrimoniali laddove non c’è possibilità di usarli per ottenere liquidità.
I problemi che abbiamo di fronte sono chiari. La visione, i soldi e le proposte che servono per affrontarli pure. Adesso si tratta di vedere se la politica è disposta a lasciarsi alle spalle annunci, bandierine ideologiche e documenti di pura fuffologia. Per dirla con Diego Armando Maradona, i calci di rigore li sbaglia solo chi ha paura di tirarli.