La Stampa

«Ascoltiamo i sindacati ma su pensioni e flessibilità saremo noi a decidere»

Alessandro Barbera
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Sulla scrivania di Tommaso Nannicini, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio che è il più stretto collaboratore economico di Matteo Renzi, c’è la nostalgia per il periodo di studi negli Stati Uniti. Una statuetta di Bill Clinton, una di David Ortiz, battitore simbolo dei Boston Red Sox e detentore del record di cinquantaquattro fuoricampo in una stagione. Il sottosegretario cerca di spiegare a penna come funzionerà l’«Ape», il prestito pensionistico al quale lavora da settimane. Ha avuto da Renzi il mandato, insieme a Giuliano Poletti, di trattare la riforma con quella che una volta si chiamava la Triplice. Gli chiedo se la prospettiva non lo atterrisca. Si avvicina al computer e stampa due articoli scritti per Mondoperaio. Il primo risale al 1999 e si intitola «I limiti della concertazione». L’altro, appena uscito, suona più istituzionale: «Jobs Act e sindacato: due sfide da raccogliere».

Improvvisamente il premier riscopre un metodo antico che però nel passato ha messo nei guai i suoi predecessori. Un segno di debolezza?  
«Al contrario, un segno di forza».

Di forza? La storia racconta una verità diversa. 
«Nei primi Anni Novanta la concertazione ha svolto un ruolo importante. Una politica debole, incapace di decidere, l’ha lentamente trasformata in un fine in sé. Non importava quel che si decideva, bastava si concertasse. Nella migliore delle ipotesi era diventata una liturgia vuota, nella peggiore un gioco di veti incrociati».

 C’è chi dice che Renzi l’abbia rispolverata per coprirsi a sinistra in vista del referendum costituzionale, contro il quale si è schierato un pezzo di Pd. Non è così? 
«Non è così. Lo ha fatto perché ci sono da prendere decisioni importanti, ed è giusto coinvolgere le parti sociali. Ma sarà una concertazione fatta secondo regole diverse dal passato: ascolteremo le loro ragioni, in alcuni casi le faremo nostre, poi però a tirare le fila sarà il governo nella sua autonomia. Due studiosi olandesi, con un termine un po’ forte, la definiscono “l’ombra della gerarchia”. Solo se c’è quella e se c’è una politica con le idee chiare, la concertazione funziona».

 Perché avete deciso di rimettere mano alle pensioni? 
«Nonostante i molti interventi siamo ancora dentro ad una transizione. La responsabilità principale è della riforma Dini, la quale ha reso troppo lungo il passaggio al sistema contributivo: basti dire che solo dopo il 2035 il cento per cento di chi uscirà dal lavoro lo farà con una pensione interamente contributiva. La riforma Fornero ha messo in sicurezza il sistema, ma ha introdotto una fortissima rigidità in uscita. Quella fu l’inevitabile conseguenza dei problemi creati dalla lunga transizione della Dini».

 Una riforma figlia della concertazione. È così? 
«Sì, rispetto alla transizione che ha salvato intere coorti. Ma è anche la riforma che ha il merito di avere introdotto il contributivo».

 Il tipo di riforma che pesa sulle spalle dei più giovani. O no? 
«Prima di entrare qui ero anche io ostaggio di una certa retorica giovanilista, ma la spesa pensionistica non è l’unica eredità del banchetto della spesa facile della prima repubblica. Non possiamo sempre battere lì. Il sistema adesso è in equilibrio, finanziariamente e nei rapporti tra generazioni. Il problema è la mancanza di flessibilità delle scelte individuali, che paradossalmente pesa su chi è vicino alla pensione».

Tenuto conto delle aspettative di vita, quella flessibilità dovrebbe costare una penalizzazione dell’otto per cento per ogni anno di anticipo. Dico bene? 
«No, è un numero troppo alto, ma di certo la flessibilità non può essere gratis. Se lei mi chiede qual è il prezzo giusto, io le rispondo che tutto dipende da chi la chiede e qual è l’obiettivo per cui la si concede».

Chi potrà chiedere di lasciare il lavoro in anticipo? 
«Abbiamo individuato tre categorie di persone: chi ha necessità di andare in pensione perché ha perso il lavoro e non riesce a trovarne un altro, chi preferisce andare prima e per questo accetta una penalizzazione, infine chi lavora in un’azienda che ha necessità di una ristrutturazione. Sia chiaro: sono tre
obiettivi importanti e dignitosi, ma non possono costare sette miliardi di euro in un anno. Le risorse servono per la crescita».

 Di qui l’idea del coinvolgimento di banche e assicurazioni. Qualcuno dice già che sarà un regalo a loro. È così? 
«Il prestito non comporta alcuna garanzia reale, come avviene ad esempio quando si sottoscrive un mutuo. Se ad esempio il pensionato dovesse mancare durante il periodo di vigenza del prestito, pagherà un’assicurazione. Non solo: finito il periodo del prestito, il nostro progetto prevede l’applicazione di una detrazione fiscale che per i redditi più bassi arriverà a coprire un pezzo della penalizzazione, quindi anche del capitale prestato nel periodo di anticipo».

 E quanto costerà alle casse pubbliche? 
«Di gran lunga meno della gran parte delle proposte in campo».

 Ci può fare un esempio pratico? 
«Fare simulazioni precise è presto. Posso dire però che per i redditi medio-alti la penalizzazione sarà alta, perché in quel caso la detrazione sarà minima o assente. Al contrario, per i redditi bassi o per i disoccupati la penalizzazione sarà molto piccola».  

Il periodo possibile di anticipo sarà limitato a i tre anni precedenti la pensione, o è possibile che alla fine la platea per il prestito si allarghi? 
«L’ipotesi di intervento è limitata ai tre anni precedenti l’età prevista per la pensione di vecchiaia. Ma ripeto, al momento è un’ipotesi di lavoro. I dettagli li decideranno governo e Parlamento con la legge di Stabilità, sentite le parti sociali».

 La riforma creerà le condizioni per aumentare l’occupazione dei più giovani?
«Non c’è nessuna base empirica che dimostri un effetto sostituzione. Mi auguro che ciò avvenga, ma da economista non ne ho la certezza».

 Ci saranno i soldi per il bonus ottanta euro a favore dei pensionati con trattamento al minimo? 
«Aiutare le pensioni basse fa parte delle misure da introdurre di qui alla fine della legislatura. Di qui ad allora ci saranno due leggi di Stabilità. Le priorità le deciderà il presidente del Consiglio con i ministri Padoan e Poletti»