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Buonuscita economica e ammortizzatori per i lavoratori flessibili

Tommaso Nannicini
Lavoro/#lavoro

Se ne parla ormai da anni: riformare gli ammortizzatori sociali per adattarli alla nuova realtà del mercato del lavoro, in cui convivono lavoratori che godono di protezioni forti del posto in azienda e lavoratori flessibili lasciati soli di fronte alle intemperie del mercato. Se ne parla da anni, ma non se ne fa niente, indipendentemente dal colore politico del governo di turno. Mentre per altri interventi a favore di generazioni già tutelate dal nostro sistema di welfare, come i cinquantenni coinvolti dall’abolizione dello scalone previdenziale decisa dal governo Prodi, si passa subito dalle parole ai fatti, per la riforma degli ammortizzatori le risorse non vengono mai trovate.

CON BUONA PACE DELLA RETORICA SULL’IMPORTANZA DELLE TUTELE PER LE NUOVE GENERAZIONI
Sull’onda delle turbolenze economiche in atto, il governo ha racimolato 1 miliardo e 26 milioni per estendere l’indennità di disoccupazione a requisiti ridotti, introdurre un TFR pari al 10% del reddito annuo per i collaboratori con unico committente, e altro ancora. Tutti interventi settoriali e lontani da una riforma che preveda una copertura universalistica del rischio disoccupazione. Sul sito www.lavoce.info, Tito Boeri e Pietro Garibaldi hanno rilanciato la meritoria proposta di una “rete per tutti” basata, tra le altre cose, su un principio bonus-malus pensato per aumentare i contributi al futuro fondo di disoccupazione di quelle imprese che lo utilizzano maggiormente. Quest’ultimo aspetto, tuttavia, rischia di introdurre effetti perversi per cui le imprese con maggiori difficoltà economiche finiscono per pagare contributi più alti, con un ulteriore peggioramento della loro situazione occupazionale. La riforma degli istituti di garanzia del reddito, invece, potrebbe essere strutturata in modo da scoraggiare altri comportamenti, come un ricorso eccessivo al lavoro temporaneo anche in presenza di esigenze occupazionali stabili. Vediamo un esempio.

LA PROPOSTA: UNA BUONA USCITA ECONOMICA PER I LAVORI TEMPORANEI
Si potrebbe istituire il diritto a una buonuscita economica per tutti i lavoratori a tempo, diritto che già esiste in altri paesi europei. Ecco come una proposta del genere potrebbe essere modulata nel nostro paese. Ogni lavoratore, via via che accumula periodi di occupazione presso la stessa azienda (sotto qualsivoglia tipologia contrattuale, dal tempo determinato al lavoro a progetto), dopo un numero minimo di mesi, matura il diritto a una buonuscita modulata sulla durata cumulata delle prestazioni fornite. La buonuscita può essere riscossa in due modi.

  1. Una volta maturata una certa cifra, se l’impresa non utilizza il lavoratore per un mese, quest’ultimo può richiedere il pagamento dell’indennità. L’impresa può rispondere sia pagando l’indennità, sia offrendo un nuovo contratto al lavoratore. Se il contratto è di nuovo a tempo, il lavoratore può scegliere tra l’indennità e la nuova opportunità occupazionale. Se il contratto è permanente, il lavoratore deve accettarlo o rinunciare all’indennità.
  2. Una volta maturata una certa cifra, il lavoratore, se continua ad essere occupato con un contratto temporaneo presso l’azienda, può far richiesta della buonuscita, minacciando di ributtarsi sul mercato con l’aiuto dell’indennità maturata. L’impresa ha due risposte a disposizione: pagare la buonuscita e lasciare andare il lavoratore, oppure offrirgli un contratto a tempo indeterminato (che il lavoratore deve accettare, pena la rinuncia all’indennità).

I VANTAGGI E I NODI DA SCOGLIERE DELLA PROPOSTA
Una proposta di questo tipo avrebbe il merito di: 1) aumentare il costo del ricorso al lavoro temporaneo da parte delle imprese, ma solo nella misura in cui queste non sono disposte a stabilizzare entro un ragionevole lasso di tempo persone di cui mostrano di continuare ad avere bisogno; 2) aumentare il potere contrattuale del lavoratore temporaneo nella richiesta di un posto stabile, in maniera incrementale al maturare di una maggiore anzianità di servizio presso la stessa azienda. Se le imprese preferiscono stabilizzare il lavoratore, dopo averlo provato per un periodo di tempo prolungato sotto forma di contratti temporanei, non ci sarà nessun aggravio di costo. Se intendono utilizzarlo soltanto per brevi esigenze di flessibilità organizzativa e produttiva, idem (visto che il diritto alla buonuscita matura solo dopo un certo lasso di tempo). Se invece usano ripetutamente la stessa persona senza garantirgli un percorso verso la stabilità, sono chiamate a sobbarcarsi una parte dei costi che impongono al lavoratore e alla società.

Ovviamente, gli effetti della proposta dipendono interamente da due parametri: 1) la soglia minima dopo la quale scatta il diritto alla buonuscita; 2) il coefficiente che converte i mesi di anzianità di servizio come lavoratore temporaneo in altrettanti scatti di buonuscita. Tanto maggiore la soglia (o minore il coefficiente), tanto più ci si avvicinerà alla situazione attuale in termini di costi per le aziende, disincentivando soltanto i casi più eclatanti di utilizzo reiterato degli stessi lavoratori atipici in mansioni di fatto permanenti. Tanto minore la soglia (o maggiore il coefficiente), tanto più si aumenteranno i costi attesi del lavoro temporaneo, con il rischio però di aggravare l’onere per le imprese anche di fronte a oggettive esigenze di flessibilità. La virtù, probabilmente, sta nel mezzo.

UNA PROPOSTA DA CONIUGARE CON L’ESTENSIONE DEGLI AMMORTIZZATORI SOCIALI
Di fatto, l’istituzione di una buonuscita aumenterebbe l’aliquota contributiva effettiva a carico dei datori di lavoro. Ma solo nei casi di mancata stabilizzazione. E solo per forme contrattuali che godono di minori oneri previdenziali (contratti a causa mista), di minori costi di licenziamento (tempo determinato), o di entrambe le cose (lavoro a progetto). Tuttavia, per non pesare troppo sui costi delle imprese e per non correre il rischio di ridurre l’occupazione, soprattutto in un periodo di flessione congiunturale, l’aggravio contributivo non potrebbe superare certi limiti. Per questa ragione, sarebbe utile integrare la buonuscita con un sussidio di disoccupazione per i lavoratori flessibili, coperto in parte attraverso nuovi contributi a carico dei lavoratori (più facili da introdurre in un periodo di crisi, quando il rischio che si intende assicurare è tangibile). In altre parole, la buonuscita dovrebbe essere accompagnata da una riforma degli ammortizzatori sociali che, coerentemente con la strategia di difendere il lavoratore nel mercato, estenda la tutela del reddito in maniera universale. Per impedire che siano i soli lavoratori temporanei a pagare il costo di una recessione che non è detto si esaurisca dall’oggi al domani.

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