qdR magazine

Cara Europa, è l’ora di crescere

Tommaso Nannicini
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Lo studio della politica – al pari delle scienze sociali che hanno a che fare con le decisioni (e debolezze) umane – non permette di arrivare a leggi universali, ma solo a regolarità empiriche. Una di queste è che, quando i politici ripetono cose ovvie con tono pomposo, non sanno che pesci prendere: vuoi perché sono a corto di idee; vuoi perché devono sciogliere conflitti redistributivi che non hanno la forza di sciogliere. Il dibattito sull’Europa, ahinoi, ne fornisce una prova. Da una parte, quelli che dicono che la crescita è prioritaria (grazie, ma come?). Dall’altra, quelli che dicono che la crescita richiede rigore (grazie, ma non è evidente in tempi di crisi del debito sovrano?). Pare impossibile accapigliarsi su questo. E infatti non è lì il contendere. Conflitti economici (tra paesi) e ideologici (tra partiti) si nascondono sotto traccia.

Al vertice di Roma, la Merkel ha dribblato le richieste di gestione comune dei debiti dei paesi periferici, in cambio di un altisonante pacchetto per la crescita. Il risultato è l’impegno di Germania, Francia, Italia e Spagna a chiedere al vertice europeo di questa settimana un investimento di 130 miliardi per misure pro-crescita. Tradotto: qualche progetto europeo in più e nulla di nuovo sui nodi da sciogliere. Pur di far digerire il fiscal compact ai socialdemocratici tedeschi e ai verdi austriaci, c’è anche una proposta che – se non farà danni – si rivelerà una mera bandiera ideologica: una tassa sulle transazioni finanziarie solo in alcuni paesi (una tassa in un pacchetto per la crescita, complimenti per la fantasia).

Ma dopo il dribbling sugli Eurobond, la Merkel si prepara a lanciare il contropiede. E c’è da sperare che lo faccia presto. I tedeschi hanno le idee chiare: se volete i nostri soldi per salvare l’euro, acceleriamo il processo di unione politica e di gestione comune delle politiche di bilancio. Per la serie: no taxation without representation. La palla passerà così ai francesi, da sempre allergici a cedere sovranità politica (senza andare a De Gaulle, si pensi al referendum del 2005 appoggiato anche dal socialista Fabius, attuale ministro degli esteri). A quel punto, con chi si schiereranno i democratici italiani? Col nazionalista Hollande che vuole rilanciare la crescita a colpi di spesa pubblica (possibilmente pagata dai contribuenti tedeschi)? O con la rigorista Merkel che chiede più Europa politica?

Da questo nodo non si scappa. Lo ha spiegato bene Giancarlo Perasso su lavoce.info: gli Eurobond, comunque li si cucini, rischiano di essere controproducenti se non c’è prima un governo comune dell’economia. E Paul Krugman ci ha ricordato perché l’euro non è un’area valutaria ottimale: per la scarsa mobilità del lavoro e per la mancanza di integrazione fiscale. Lo si sapeva già prima: infatti, per molti l’euro significava gettare il cuore oltre l’ostacolo. Il problema è che la politica, dopo quello slancio iniziale, ha latitato. Oggi, la sfida è dura, ma non impossibile. Nel breve periodo, si tratta di rafforzare gli strumenti di assistenza alle crisi del debito dotati di una forte componente di condizionalità (come l’Esm) per non spaventare troppo i tedeschi, e di introdurre meccanismi di controllo delle banche e di garanzia dei depositi a livello europeo. Nel medio periodo, si tratta di imboccare la strada di una maggiore integrazione politica.

Dalla crisi dell’Europa si esce con più Europa: maggiore integrazione dei sistemi finanziari, maggiore mobilità del lavoro e istituzioni politiche che gestiscano all’unisono le politiche fiscali. E per avere più Europa servono due cose: leadership politiche forti e la volontà di ogni paese di percorrere la strada che porta a una maggiore omogeneità economica. Insomma, chi vuole gli Eurobond, sostenga una più stretta unione fiscale (leggi: nuovi trattati e istituzioni). Chi vuole il governo unico dell’economia, si dia da fare per rendere sostenibili i conti pubblici e le economie di tutti i paesi europei (leggi: riforme a casa propria). Non sono le politiche europee a dover risolvere i problemi nazionali, ma le politiche nazionali a dover risolvere i problemi europei. Non esistono scorciatoie. Lo so: non si dovrebbe mai concludere con una citazione abusata. Ma John è John. E secondo me rende l’idea (ai lettori di qdR l’ardua sentenza). Cari paesi europei, non chiedetevi cosa può fare l’Europa per voi, ma cosa potete fare voi per l’Europa.

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