Il dibattito post-Forum Sociale di Firenze sta dando ragione a quanti avevano tentato di impostare il dibattito pre-Forum intorno ai grandi temi della globalizzazione, piuttosto che intorno agli aspetti organizzativi (chi paga le spese?) o di ordine pubblico (ci saranno disordini?). Prima del Forum, infatti, ha prevalso a lungo un atteggiamento di demonizzazione del movimento, ben visibile a destra e cavalcato da quanti hanno soffiato sul fuoco delle provocazioni per delegittimare le domande che arrivano dal mondo “new global”. Dopo il Forum, al contrario, è emersa in molti (soprattutto a sinistra) la tentazione di strumentalizzare il movimento. Il semplice fatto che tutto è andato bene viene preso a pretesto per sostenere che la sinistra può rigenerare se stessa solo aprendosi alle istanze “new global”. Entrambi questi atteggiamenti – la demonizzazione e la strumentalizzazione – non portano da nessuna parte.
E lo stesso vale per la querelle post-Forum sulla partecipazione dei DS: c’erano o non c’erano? Fassino doveva andare al corteo o ha fatto bene a fermarsi a Sesto (cioè alla Casa del popolo vicino a Firenze dove ha incontrato esponenti del movimento e leader del socialismo europeo) piuttosto che ad Eboli? La questione è mal posta: i DS – fisicamente – c’erano, con parte della loro base e con molti dei loro dirigenti. Il grande assente non è stato il segretario nazionale, ma una linea politica chiara e coerente. Stretta tra due fuochi, la sinistra riformista si è presentata all’appuntamento senza una piattaforma riconoscibile in tema di globalizzazione. Qualcuno obietterà: ecco il solito eccesso di zelo riformista. I DS e il centrosinistra, in fondo, hanno preso posizione su molte delle questioni poste dal movimento. A questo qualcuno, vorrei ricordare che i documenti per addetti ai lavori e le giaculatorie sulla “globalizzazione che non deve essere rifiutata ma governata” vanno bene, ma una linea chiara e coerente è tutta un’altra cosa. Nel maldestro tentativo di conciliare tutto e il contrario di tutto, si continua a non capire che una posizione politica, se vuole affermarsi, ha bisogno di differenziarsi in maniera netta dalle posizioni già affermate. Nel citato incontro di Sesto, per esempio, Fassino ha tenuto un bellissimo intervento conclusivo, svolgendo con grande diligenza il “compitino” riformista che si era assegnato, ma non ha trovato il coraggio di spendere una parola – a casa sua, nella sua Casa del popolo – per arginare alcuni degli interventi che l’avevano preceduto, improntati unicamente a una logica anti-mercato e anti-USA. L’ex sindaco di Porto Alegre Tarso Genro, tanto per citarne uno, non aveva trovato di meglio che tuonare contro il “fascismo di mercato” (sic!) e il “progetto autoritario” (sic!) perseguito da Bush all’interno e all’esterno degli Stati Uniti. Qualche parola di commento (e di presa di distanza) da parte di Fassino non avrebbe stonato.
Volendo semplificare, potremmo dire che nel dibattito sulla globalizzazione si fronteggiano due opposte prospettive. Da una parte i “global-ottimisti”, con la loro fiducia nelle “magnifiche sorti e progressive” del mercato, in grado di produrre un aumento della produttività e del tenore di vita in tutti i paesi che l’abbracciano, grazie a una più efficiente allocazione delle risorse su scala mondiale. E dall’altra i “global-pessimisti”, convinti che la globalizzazione sia negativa tanto per i paesi poveri (che restano ai margini dello sviluppo capitalistico), quanto per l’uguaglianza all’interno dei paesi ricchi (dove s’innesca una corsa al ribasso sul terreno dei diritti, in risposta alla concorrenza delle nazioni con bassi salari e bassi livelli di protezione sociale o tutela ambientale). Come ha notato Amartya Sen, ottimisti e pessimisti rischiano di condurci alla medesima – sconsolante – conclusione: che niente deve (o può) essere fatto per migliorare il mondo in cui viviamo. Perché viviamo già nel migliore dei mondi possibili. Oppure perché serve un mutamento radicale di sistema (“un altro mondo”). Dobbiamo uscire da questo aut-aut. La felice miscela composta da democrazia liberale, economia di mercato e stato sociale (“il nostro mondo”) ha garantito uno straordinario processo di allargamento del benessere e della libertà, sia negativa sia positiva. Ma un processo del genere non è predeterminato, dobbiamo impegnarci affinché possa continuare in un contesto mutato. È questo l’orizzonte entro il quale si muovono i “global-riformisti”, categoria ancora priva di una sufficiente coscienza di sé. Il loro compito è quello di individuare gli strumenti (ovvero le istituzioni e le politiche) in grado di affrontare le priorità globali. Proviamo a considerare due macro-temi (globalizzazione economica e ricerca scientifica) all’interno dei quali si possono individuare abbastanza agevolmente queste prospettive: l’ottimismo liberista; il pessimismo della critica anticapitalista; la strategia global-riformista.
Primo: la globalizzazione economica può essere vista come una condizione necessaria ma non sufficiente per innescare lo sviluppo. In questa ottica, i global-riformisti devono proporsi di affiancare altri obiettivi sociali alla liberalizzazione degli scambi. Raccogliendo l’insegnamento di Sen, dovrebbero porre al centro di una nuova strategia di sviluppo l’espansione delle libertà politiche, economiche e sociali nel mondo. Si noti che una prospettiva del genere porta necessariamente a contraddirne altre. A contraddire la destra liberista, che difende lo status quo distributivo con la scusa di non ostacolare il mercato. A contraddire l’antiglobalismo di destra, che vuole liberalizzare tutti i mercati tranne quelli dove i paesi poveri hanno un vantaggio comparato, come il mercato del lavoro (l’economista Dani Rodrik ha stimato che un programma di permessi temporanei di soggiorno pari al 3% della forza lavoro del G7 produrrebbe molti più benefici per i paesi poveri di qualsiasi negoziato WTO). A contraddire la visione prevalente nel movimento “new global”, che attribuisce alla globalizzazione colpe non sue e si rifugia nel tepore di posizioni tanto rassicuranti sul piano ideologico quanto incapaci di risolvere i problemi, come nel caso della critica alla WTO. Criticarla sul piano istituzionale – perché ha troppo potere – significa non cogliere gli elementi positivi della spinta verso la creazione di istituzioni globali che affrontino i temi globali. Criticarla sul piano delle politiche- perché persegue la liberalizzazione del commercio- equivale ad appoggiare l’egoismo protezionistico dei paesi sviluppati. La WTO svolge bene il proprio compito,
che è quello di favorire l’apertura dei mercati. Questo non basta a risolvere il problema della povertà. Ma non possiamo farne una colpa alla WTO. Il problema è che non esistono istituzioni altrettanto efficaci per l’allargamento delle opportunità sociali e lo sviluppo. Ecco un esempio di cosa si dovrebbero occupare i global-riformisti.
Consideriamo un secondo tema. Dall’interno del movimento “new global”, sale spessolo slogan: “no a OGM e brevetti”. Anche su questo, i global-riformisti dovrebbe tenersi lontani sia da posizioni che – in nome dei principi di precauzione o eguaglianza – sembrano pronte a rinunciare agli enormi benefici della ricerca scientifica, sia da posizioni che si limitano a presentare l’esistente come unica soluzione possibile. In tema di OGM, non si possono negare gli enormi benefici che le biotecnologie potrebbero produrre nei paesi poveri (in termini di colture con proprietà nutrizionali arricchite o resistenti a condizioni climatiche difficili). I nemici del transgenico sono preoccupati che la ricerca venga orientata da avide multinazionali piuttosto che dalle esigenze di quei paesi? Benissimo. Proponiamo che i finanziamenti pubblici alla ricerca vengano aumentati e diretti verso quelle sperimentazioni della biologia molecolare in grado di produrre i benefici maggiori nelle aree in via di sviluppo. In tema di brevetti farmaceutici, è giusto denunciare l’esito finale in cui milioni di persone nei paesi poveri non possono acquistare medicine fondamentali; oppure smascherare che la ricerca è orientata verso le patologie comuni nei paesi occidentali per motivi commerciali. Ma abolire i brevetti non significa redistribuire i benefici della ricerca. Significa affossare la ricerca rimovendo gli incentivi a farla (si tenga presente che la rendita di monopolio sancita da un brevetto può apparire come fonte di inefficienza e ineguaglianza in un’ottica statica, ma è fonte di efficienza in un’ottica dinamica come remunerazione di un precedente investimento in attività di ricerca). Chi ha a cuore l’equità dovrebbe sollecitare la responsabilità dei paesi ricchi, proponendo che siano loro ad acquistare i brevetti o incentivare la ricerca pubblica e privata per soddisfare le esigenze dei paesi poveri.
Come si vede, le ragioni di una prospettiva riformista non mancano. Certo, c’è ancora molto da lavorare, ma il cantiere è aperto. Il centrosinistra dovrebbe trovare il coraggio di dare corpo e anima a una “terza via” riformista, distinta sia da un miope antagonismo sia da un irresponsabile liberismo. Chi ha partecipato agli incontri del Forum di Firenze – accanto alle tante domande giuste e alle non poche risposte sbagliate – ha notato un’altra cosa: una passione vera per la politica. Non è necessario dire le stesse cose ascoltate durante il Forum per diventare interlocutori credibili dei tanti giovani che hanno testimoniato questa passione. Basterebbe dimostrare di avere la stessa voglia di trovare soluzioni ai grandi problemi dell’umanità, credendo fino in fondo nelle idee che si dice di professare. È questa, a mio avviso, la lezione più importante che ci lascia in eredità il Forum di Firenze. Purtroppo, è anche la più inascoltata.