Marini, Prodi e Rodotà sono tre persone perbene, che hanno dedicato la loro vita – in dosi diverse – alla politica, agli studi e alle relazioni di potere. Ma dietro alle loro candidature al Quirinale, per il Pd, si nascondevano tre linee politiche logicamente in contrasto tra loro.
Marini significava siglare un patto esplicito col Pdl per poi sondare la praticabilità di un governo di grande coalizione, che si incaricasse di fare alcune riforme su cui fondare un bipolarismo mite. Prodi significava andare da soli, rompere col Pdl, ricompattare la parte più militante del proprio elettorato e sperare di formare un governo di minoranza raccattando qualche voto in parlamento (pezzi di M5S o, chissà, della Lega). Rodotà significava leggere il risultato elettorale come fanno Civati o Landini, per cui due terzi degli elettori hanno chiesto il “cambiamento”. Poco importa che Grillo non la pensi come loro e non veda quei due terzi come sommabili: magari, sottostando a un diktat dopo l’altro del postcomico genovese, si poteva arrivare a un governo Pd-M5S.
Queste linee avevano gradi diversi di fattibilità o auspicabilità, a seconda dei gusti di ognuno. Ma, ormai, non è questo il punto. Il punto è che il Pd non ha saputo decidere. Stante la sconfitta (o la non vittoria, il succo non cambia) elettorale, avrebbe dovuto scegliere una di queste linee. Accettando il rischio che, nel caso in cui la scelta si fosse dimostrata fallimentare, si sarebbe tornati alla urne con il Porcellum e con un Pd che sommava una sconfitta politica a quella elettorale. Ma scelte chiare e assunzioni di responsabilità danno dignità alla politica.
Si è preferito, invece, baloccarsi con lo slogan del governo di cambiamento, che – tradotto – stava a significare: non abbiamo la più pallida idea di quale linea scegliere, ma con un po’ di fortuna ci ritroveremo al governo lo stesso e lo chiameremo di “cambiamento”. Non è un caso che in tre settimane il Pd abbia oscillato in maniera schizofrenica tra le tre opzioni di cui sopra. Senza un dibattito vero. Senza una discussione trasparente. Era davvero così difficile prevedere che nella segretezza del voto (prevista dalla Costituzione) il dissenso e lo smarrimento si sarebbero comunque materializzati?
Lascia stupefatti che tuttora Bersani, in un’intervista all’Unità di domenica scorsa, imputi alla scarsa disciplina dei parlamentari Pd il tramonto della “possibilità di un governo di cambiamento”. O che dichiari che il Pd non ha votato Rodotà perché ormai si era capito che neanche per lui “ci sarebbero stati i voti”. Di nuovo, ammettendo di non saper scegliere tra linee chiaramente opposte.
Anche Bersani è una persona perbene. Un leader che ha creduto in un progetto politico mettendoci la faccia. Merita rispetto e stima. Se ha fallito è anche perché chi faceva parte di un gruppo dirigente in gran parte scelto da lui non l’ha preso da una parte e gli ha detto: caro segretario, questa storia del governo di cambiamento è una bufala. Forse, dovrebbero dirgli adesso che – con il dovuto rispetto – il governo di cambiamento era una bufala. Andiamo oltre.
Soprattutto, cerchiamo di non ripetere gli stessi errori del passato, che poi sono uno solo: ostinarsi a non capire che il Pd – quello vero, non la somma dei gruppi dirigenti di vecchie correnti – può nascere solo attraverso linee politiche (e carriere politiche) forgiate nel fuoco di una battaglia tra idee diverse.
Vai al contenuto