Europa

Caro Tocci, sull’università più coraggio

Tommaso Nannicini
#università

Caro onorevole Tocci, ti ringrazio per aver risposto in maniera puntuale al mio intervento su Europa in merito alla riforma/mostro Gelmini (a seconda dei punti di vista). La posizione che sintetizzi è chiarissima: i danni che questo intervento legislativo produrrà sull’università italiana saranno gravi. La posizione è chiara e mi ha anche fornito spunti di riflessione utili per rivedere alcune delle mie opinioni, ma sinceramente resto non del tutto convinto, sul piano del merito e sul piano politico.
Nel merito, i punti che ricordi non mi sembrano tali da prefigurare una catastrofe. Hai ragione, l’eccesso di regolamentazione è senz’altro un aspetto negativo. Si doveva fare l’esatto contrario: decentralizzare le decisioni affidandosi agli incentivi della valutazione ex post. Ma di burocrazia ce n’è già tanta in giro e gli italiani (purtroppo) sanno come conviverci.
Al massimo, non cambierà niente. E che il Cepu riceva il rango della Bocconi non è così grave, francamente.
Quel che conta è la reputazione accademica, non le etichette legislative, a patto che non ci siano effetti finanziari.
Dubito che i mali dell’università italiana si aggraveranno per un po’ di burocrazia in più e per il Cepu.
Sui punti che avevo già ricordato nel mio intervento (contratto a tempo determinato per i ricercatori e tetto del 10% per i fondi distribuiti sulla base della valutazione), invece, mi sembra che siamo d’accordo sui limiti dell’attuale intervento legislativo.
Ma si tratta, appunto, di limiti legati al “non fare abbastanza” più che al “fare danni”. Esattamente come cercavo di argomentare: si potrebbe (e si dovrebbe) fare di più.
Non si deve trascurare, inoltre, un elemento di “politica” universitaria che non sfugge a chi lavora sul campo (in trincea, direi). In molti settori disciplinari, è aperta una battaglia tra chi lavora sulla frontiera della ricerca scientifica e vorrebbe aprire la selezione dei docenti universitari a criteri di concorrenza internazionale (laddove è possibile), e chi difende un sistema di reclutamento chiuso e provinciale. L’inizio di una tendenza che promette di allocare risorse sulla base delle valutazione fornisce un’arma in più ai primi, che ormai, nelle riunioni di dipartimento in cui si parla del futuro reclutamento, hanno un argomento importante per far passare la propria linea. Andare a spiegare a chi è in trincea a combattere questa battaglia che intendiamo togliergli l’unico strumento a loro disposizione (retorico o fattuale che sia), perché poi noi sapremo fare la riforma perfetta quando torneremo al governo, anche se non abbiamo fatto niente di tutto ciò nei sette anni in cui ci siamo stati, è davvero difficile da far digerire politicamente.
E così vengo al punto politico generale.
Quando parlo di simboli, intendo dire che il Pd ha il dovere di esprimere una linea chiaramente comprensibile dall’elettore medio, il quale ha il diritto di non essere rimandato a documenti o emendamenti per gli approfondimenti del caso. Seguo da anni le tue proposte ampiamente condivisibili sull’università italiana e lamento che il Pd non abbia saputo costruire una battaglia politico-culturale forte intorno a quelle proposte.
Non avevo dubbi che esistessero ottimi emendamenti “meritocratici” del nostro gruppo parlamentare sulle politiche universitarie. Ma la politica, temo, è un’altra cosa. Possiamo lamentarcene e disperarci perché gli italiani non ci capiscono. O possiamo iniziare a farla per cambiare il paese.
Dicendo apertamente, per esempio, che siamo disponibili ad accordi bipartisan per migliorare le parti valide (almeno in linea di principio) contenute nella riforma. Rilanciando la palla su temi come l’abolizione del valore legale del titolo di studio (perché la concorrenza tra atenei si basi sulla qualità e non sull’offerta di un pezzo di carta), la separazione tra medicina e le altre facoltà, o la liberalizzazione delle rette (per superare un metodo di finanziamento fortemente regressivo che paga gli studi delle classi medio-alte con le imposte di quelle basse). Che cosa pensa la leadership del Pd su questi tre temi? Anche la battaglia sulle rendite, che tu richiami come un segno della coerenza del segretario del Pd, è un’arma da maneggiare con cura. Un’arma che rischia di cambiare tutto perché niente cambi. Non è con una crociata contro le rendite che riusciremo a cambiare il paese. Laddove noi vediamo una rendita, altri vedono un diritto acquisito, un modo dignitoso per sbarcare il lunario.
Certo, molte rendite di posizione non possiamo più permettercele; dobbiamo rimettere in moto gli italiani con forti iniezioni di concorrenza e selezione. Ma riuscirà a farlo solo una politica dotata di una visione lucida del futuro. Una politica che faccia capire che i sacrifici richiesti (al tassista che si è comprato la licenza con la liquidazione dei genitori, o al ricercatore senza pubblicazioni che ha perso anni mal consigliato e sfruttato dal barone di turno) rientrano in un disegno complessivo che migliorerà il benessere collettivo. Chi sarà chiamato a fare i necessari sacrifici non dovrà essere additato al pubblico ludibrio come percettore di rendite (anche se a volte certi privilegi sono difficilmente difendibili) e, soprattutto, non dovrà essere lasciato solo nel percorso di aggiustamento richiestogli. Sta qui, secondo me, la differenza tra avere l’ambizione di aggregare il consenso su un disegno di cambiamento del paese e accontentarsi di fare brillanti emendamenti quando governano gli altri.