Caro Direttore, durante l’estate, i Ds hanno reso omaggio alla figura di Enrico Berlinguer, a venti anni di distanza dalla sua morte. Nei loro dibattiti. Nei loro manifesti. E nelle loro Feste dell’Unità. È il giusto tributo a un personaggio di grande spessore politico e umano, che ha segnato in maniera indelebile la storia italiana. Un simile tributo, tuttavia, è sganciato da qualsiasi riflessione sulla nostra storia recente: su come le ingombranti macerie del duello a sinistra tra Pci e Psi continuino a condizionarci. Per carità: nessuno vorrebbe “deberlinguerizzare” i Ds (come paventa Pietro Folena). Ma non può essere sottaciuto il rischio che si finisca per “berlinguerizzare” tutta la sinistra. Ancora oggi, i Ds, dopo il travaglio post-1989 e il doppio cambio del nome, quando parlano del proprio passato (della storia del “nostro partito”), sia che lo facciano per guardarsi allo specchio, sia che lo facciano per agghindarsi a festa e presentarsi all’esterno, si riferiscono a un’unica tradizione, a un unico filone culturale, a un unico movimento collettivo. È quanto traspare da tutti i simboli disponibili. Dai quadri alle pareti. Dai nomi delle sezioni. Dagli interventi politici e dai racconti autobiografici. Dai gruppi dirigenti nazionali e periferici.
Io appartengo alla generazione che ha votato per la prima volta nel 1992 (il Pci non c’era più; Dc e Psi sarebbero spariti di lì a poco). Ho iniziato la mia militanza politica da socialista (italiano, non solo europeo). E oggi continuo con passione questo impegno nei Ds, partito a cui sono iscritto dal 2001, sull’onda di quello che allora (un secolo fa?) veniva chiamato “progetto Amato”: l’idea (il sogno?) di lasciarci alle spalle le divisioni del passato, per costruire una casa comune della sinistra democratica e socialista anche nel nostro paese. Una casa comune rivolta al futuro, ma all’interno della quale ognuno potesse onorare i propri “antenati”. Una casa comune fondata non sull’ipocrita rimozione della storia, ma sulla semplice constatazione che la sinistra italiana è giunta sulle sponde del socialismo democratico passando per molti rivoli, per molte tradizioni, ognuna delle quali può legittimamente portare il proprio contributo.
Quel progetto ha ancora senso? I Ds non avrebbero dovuto rappresentare il primo esperimento di quella nuova casa comune, piuttosto che l’ennesimo contorcimento dell’ex Pci? Per rispondere, può essere utile aprire una piccola parentesi, che spieghi meglio la visione del passato a cui si sente vicino uno con un percorso politico simile al mio. Già negli anni ‘70, l’Italia vede entrare in crisi il suo modello di sviluppo, incentrato su politiche distributive con benefici concentrati e costi diffusi, grazie a inflazione e spesa pubblica in disavanzo. Sia perché aumenta la pressione dei vincoli esterni, sia perché vengono al pettine i nodi del vecchio sistema, a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, il rapporto tra società e istituzioni si scolla. Esisterebbe un unico modo per dare uno sbocco riformista alla crisi: ammetterne le responsabilità e trovare una via d’uscita capace di ripartirne i costi economici e politici in maniera equa. Si preferisce, invece, seguire la via dei capri espiatori. Senza entrare nell’analisi di quella spettacolare catarsi collettiva, non può sfuggire come uno dei suoi motori principali sia il desiderio di auto-assoluzione presente nella società e strumentalizzato da una parte del mondo politico. È questo il patto consociativo sul quale nasce la Seconda Repubblica: la sommaria liquidazione del passato, senza preoccuparsi di costruire un nuovo ordine che superi gli antichi vizi.
La storia del duello a sinistra è paradigmatica. Ancora oggi, si fatica ad ammettere che la demonizzazione del nuovo corso socialista da parte del Pci non nasce con la questione morale, ma intorno a temi squisitamente politici (scala mobile; grande riforma istituzionale; strategia euroatlantica; offensiva culturale a sinistra). Con Tangentopoli, si cade nell’errore di poter giustificare ex post quella forte contrapposizione politica. La ragione è semplice: mentre i conti definitivi con il comunismo internazionale implicano un’autocritica collettiva già metabolizzata dal Pci di Berlinguer, i conti con i ritardi degli anni ’80 richiederebbero un’autocritica individuale che pochi dirigenti si sentono in grado di affrontare. Mentre tutto sembra congiurare per aprire la strada alla creazione di una grande forza socialdemocratica, i gruppi dirigenti della sinistra non sanno cogliere l’occasione. E questo vale tanto per gli ex comunisti (nonostante il merito storico del passaggio dal Pci al Pds), quanto per gli ex socialisti (vittime sacrificali certo, ma non prive di colpe politiche). La storia della “diaspora” socialista ci mostra come quelle colpe abbiano spesso un’origine comune: l’incapacità di condurre con coraggio una battaglia collettiva. Chiusa parentesi.
Tirando le somme, la domanda che (mi) pongo è la seguente. C’è ancora spazio – nei Ds – per chi sostiene le opinioni di cui sopra, e ritiene che sia giusto valorizzare (senza essere accusati di tradimento, o marginalizzati per eccesso di stravaganza) anche il contributo storico della tradizione di socialismo autonomista, che in Italia annovera tra i propri “antenati” Filippo Turati, Pietro Nenni, Giuseppe Saragat, Sandro Pertini e Bettino Craxi?