Non l’hanno visto arrivare. Le autorità di politica monetaria in giro per il mondo (e a rimorchio i loro governi) non hanno visto arrivare il rischio di una crisi bancaria innescata da un rialzo dei tassi d’interesse. Eppure, la prima cosa che s’insegna in un corso di macroeconomia è la relazione inversa tra tasso d’interesse e prezzi dei titoli obbligazionari già emessi che le banche detengono al loro attivo: quando sale il primo, calano i secondi. E se il tasso d’interesse sale molto e rapidamente, i prezzi possono anche crollare, danneggiando parte dell’attivo di bilancio degli istituti finanziari.
La crisi del 2008, anche se nell’immaginario collettivo è giustamente associata allo scoppio della bolla di titoli tossici (leggi: cartolarizzazioni immobiliari alquanto disinvolte), è stata di fatto anticipata e innescata da un periodo di rialzo dei tassi d’interesse dalla fine del 2004 al 2007. E questa volta il rialzo dei tassi è stato molto più rapido. Negli Stati Uniti, si è assistito a un aumento di 450 punti base in poco più di un anno, quando nel 2004-07 c’erano voluti due anni e tre mesi per produrre lo stesso rialzo dei tassi. Addirittura, per dare un ordine di grandezza, negli stress test americani sulla solidità del sistema bancario, il test sui tassi d’interesse era basato su ipotesi di rialzi dei tassi minori di quelli poi operati dalla Fed nell’ultimo anno. Alla faccia di test che dovrebbero basarsi su ipotesi estreme, per sondare che cosa può mandare sotto “stress” e potenzialmente a gambe all’aria il sistema bancario.
Nelle scorse settimane, l’accento è stato solo sui vantaggi per le banche derivanti dall’aumento dei rendimenti dei depositi che mantengono presso la propria banca centrale, non sul potenziale effetto negativo sui titoli che detengono in bilancio. La presidente della Bce Christine Lagarde, dopo l’ultimo rialzo dei tassi, aveva invitato gli istituti bancari a rinegoziare i mutui a tasso variabile delle famiglie, ma non aveva espresso particolari preoccupazioni di stabilità finanziaria (e gli inviti alle banche hanno giusto l’effetto di qualche occhiataccia). Ieri la Bce ha deciso di alzare lo stesso i tassi di 50 punti base, a fronte di un’inflazione che viene ritenuta ancora troppo alta e persistente. La presidente Lagarde, nel motivare questa decisione, ha aggiunto che la Bce è pronta ad aggiustare i suoi strumenti e a fare qualsiasi cosa si renda necessaria, “all’interno del suo mandato”, per garantire la stabilità finanziaria del sistema Euro. Si usa il bazooka contro l’inflazione e la moral suasion a difesa della stabilità. Speriamo che basti.
Resta la domanda: perché c’è stata questa sottovalutazione negli scorsi mesi? Hubris regolatoria? Di sicuro ci sono state troppe pacche sulle spalle tra regolatori che pensavano di aver tutto sotto controllo. L’evoluzione in senso più restrittivo della regolamentazione finanziaria post 2008 faceva pensare che non ci fossero più bolle di titoli tossici paragonabili a quelle scoppiate in passato. E in effetti è vero, ma non è che tutti i problemi vengono sempre e solo da lì. Inoltre, i bilanci delle banche sono oggettivamente più solidi, ma il rialzo dei tassi (e il calo dei prezzi dei titoli) non poteva non avere effetti, che avrebbero dovuto essere stimati o quantomeno discussi meglio per predisporre le opportune contromisure. Adesso, c’è da augurarsi che quegli effetti restino a macchia di leopardo e venga subito arginato il contagio. Per ora la crisi si è limitata a istituzioni finanziare ritenute non sistemiche da chi le vigilava. Per questo il test decisivo sarà quello sulla solidità di Credit Suisse o altri casi simili. Ci sono ancora elementi di cauto ottimismo che fanno pensare che un argine sia fattibile. La lezione del 2008 è ancora fresca e nessuna banca centrale o nessun governo vuole ritrovarsi sulla coscienza una nuova Lehman. Speriamo che sia così.
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