Gli italiani hanno un rapporto particolare con i debiti. Odiano quelli privati, e infatti sono un popolo di formichine, ma amano il debito pubblico. Questa ambivalenza è una costante che attraversa la Prima Repubblica, la Seconda e il cabaret che ha fatto seguito a entrambe. La vulgata corrente fa risalire agli anni ’80 l’esplosione del nostro debito pubblico. Per alcuni, la colpa è della spesa facile e della corruzione politica di quel decennio. Per altri, la colpa è del divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia del 1981, che ha tolto alla politica la possibilità di stampare moneta per finanziare la spesa.
La verità è un’altra. Negli anni ’80, esplode il rapporto tra debito e Pil, ma le radici – tutte politiche – del nostro debito sono precedenti. Il disavanzo primario (la differenza tra spese e tasse al netto degli interessi sul debito) inizia ad allargarsi verso la metà degli anni ’60 e tocca il suo picco a metà degli anni ’70. Dal 1964 al 1975, la nostra spesa pubblica passa dal 31,5 al 41,9 percento del Pil. Un aumento simile a quello di Francia, Regno Unito e Germania Ovest, che passano da cifre intorno al 30 a cifre sopra il 40 in quel decennio. La differenza è un’altra: le nostre entrate rimangono pressoché invariate mentre negli altri paesi aumentano di circa 10 punti di Pil per bilanciare l’aumento delle spese. È dal lato delle entrate (leggi: tasse) che si annida l’anomalia italiana. Dagli anni ‘60 in poi, una parte sempre maggiore delle nostre scelte pubbliche è finanziata in disavanzo. Per carità, molte di quelle spese erano giuste. Era solo distorto il modo con cui abbiamo deciso di finanziarle. Prima degli anni ‘80, quegli squilibri si sorreggono grazie all’alta inflazione e a tassi reali negativi. Dopo, si lascia esplodere il debito. Per carità, l’errore degli anni ‘80 è quello di non accompagnare la stabilizzazione monetaria con una stabilizzazione finanziaria. Il disavanzo primario inizia a restringersi, ma non abbastanza da compensare l’esplosione nella spesa per interessi. Ciò non toglie che gli squilibri nella gestione dei conti pubblici inizino prima.
Perché sono partito da questa storia (economica)? Per far capire che il problema del debito pubblico, a differenza di quello privato, non è tanto che deve essere “ripagato”, ma che la sua esistenza influenza le scelte che una collettività può prendere per periodi di tempo molto lunghi. Essere miopi e non pensarci vuol dire pagarne il conto più avanti. Perché la spesa per interessi che ti porti dietro ti impedirà di usare le risorse pubbliche per altri impieghi più produttivi (asili, ospedali). E perché la spada di Damocle dell’instabilità finanziaria deprime gli investimenti e ti rende più debole sul piano geopolitico, visto che altri Stati o altri poteri economici potranno usarlo per ricattarti. “Chi paga i debiti è padrone degli altri”, dice un proverbio cinese. Accumulare debiti ti rende spesso schiavo di qualcun altro.
Anche se può sembrare paradossale, dobbiamo ricordarcelo anche oggi. Che ora serva fare più debito lo sappiamo. Ce lo ha ricordato Mario Draghi con la sua autorevolezza: per uscire dalla crisi economica legata alla pandemia, il debito è “buono”. Anche se noi italiani in passato siamo stati maestri di debito “cattivo” e dovremmo avere l’onestà di ammettere che arriviamo fragili a questa crisi anche per questo. Non basterà lo scostamento del deficit, serviranno Eurobond (una discussione cruciale che per una volta dovremmo affrontare da europei, non da tedeschi o da italiani) e l’emissione di titoli a lunga scadenza o irredimibili finalizzati all’emergenza (come i “buoni di salute pubblica” proposti da più parti). Ma anche il debito buono non è infinito, per questo dovremmo avere lo sguardo lungo e usare in maniera mirata e intelligente le risorse pubbliche: altrimenti, nel mezzo di una crisi che – diciamocelo – sarà lunga, potremmo trovarci senza soldi di fronte all’esplosione di drammi sociali. Le ultime due leggi di bilancio, approvate da maggioranze diverse, appartengono ormai alla preistoria: sono piene di misure che non servono o non sono mai partite. Perché non fare un’altra bella task force, allora, che le rivolti come un calzino recuperando risorse? Non per giocare con le bandierine della politica, ma per risolvere i problemi delle persone. Servono ancora i miliardi del bonus facciate? Perché non togliere subito quota 100 a chi ha un lavoro a tempo indeterminato non gravoso? Rendere più giusti e selettivi gli interventi del passato libererebbe risorse per la ricostruzione economica, accumulando un po’ meno debiti. Per il cabaret delle promesse facili non sarà semplice prendere queste scelte. Ma per tornare a crescere e rimettere al centro la dignità del lavoro abbiamo bisogno di coraggio. Forse è arrivato il momento di sostituire il cabaret con la politica.