Eppur si muove. Dalla forte manifestazione unitaria di Cgil-Cisl-Uil in Piazza San Giovanni ai tanti imprenditori che esprimono il loro malcontento per politiche nemiche della crescita, dalle piazze “Sì Tav” a quelle contro il degrado di Roma, dalle primarie del Pd a quanti stanno aderendo all’appello unitario di “Siamo Europei”: c’è un’Italia che ha voglia di un’alternativa, qui e ora. Un’Italia che non si rassegna al piano inclinato di una decrescita per niente felice. Un’Italia che non pensa che si possa sfuggire alle ansie del presente distruggendo il futuro.
Le scelte che la maggioranza sta scrivendo non più sulla sabbia dei programmi elettorali, ma sulla pietra dei diritti acquisiti, lasciano spazio solo a tre scenari possibili: (1) aumentare le tasse dal 2020 per un volume maggiore di quanto fatto dal governo Monti in condizioni di emergenza finanziaria e, ancora una volta, con l’economia in recessione; (2) rimangiarsi le promesse e tagliare già dal prossimo anno gli interventi fatti o annunciati da 5 Stelle e Lega; (3) uscire dall’Euro. Quarto non è dato. Non è un caso che gli esponenti intellettualmente più onesti della maggioranza facciano fatica a nascondere l’unico, vero, orizzonte che sta dietro a questo bluff: recuperare la sovranità monetaria. Uscire dall’Euro è l’unica follia che può dare un senso a una politica economica che un senso non ce l’ha. Non solo per riportare la sovranità monetaria da Francoforte a Roma, ma per rimetterla nelle mani della politica, senza quella fastidiosa indipendenza di cui gode la Banca d’Italia dopo il «divorzio» dal Tesoro avvenuto nel 1981. Cambiamento sì, ma con lo sguardo rivolto al passato. Un passato i cui danni pesano ancora come un macigno sulla nostra economia e sulle generazioni future.
Allora, il primo punto da cui partire è dire no a questa follia. Dire che non c’è futuro per un paese che spende più in interessi sul debito che asili. Che non c’è recupero di sovranità fuori dall’Europa, perché l’illusione di costruire muri non ci renderebbe padroni a casa nostra ma schiavi di decisioni prese altrove. Il Pd disegnato dalla mozione a sostegno di Maurizio Martina è un partito non solo europeista, ma a vocazione europea: un partito che ha l’ambizione di lanciare una costituente di tutti i democratici e riformisti in Europa, a partire dalla famiglia del socialismo europeo senza fermarsi lì. Perché la politica torni al centro della costruzione europea. Perché si costruisca, tutti insieme e sulla base di una discussione vera, un nuovo pezzetto di sovranità comune, per risolvere problemi che continueranno a marcire se affidati agli strumenti dei soli stati nazionali. Serve un’unione fiscale che completi quella monetaria. Una riforma istituzionale che superi il metodo intergovernativo su aree chiave e con chi ci sta (lo “sdoppiamento” di cui parla Sergio Fabbrini). Un’unione sociale che radichi la cittadinanza europea in alcuni diritti sociali, a partire dalla tutela della disoccupazione e dal contrasto alla povertà educativa, senza paura di redistribuire rischi tra cittadini europei che vivono in paesi diversi. L’alternativa al governo giallo-verde si costruisce in Europa.
La nostra proposta, ovviamente, non si ferma qui. Ma contiene le basi di un programma di politiche economiche e sociali in grado di dotare il Pd di un profilo politico-culturale da “riformismo radicale”. Dove “radicale” non sta per estremista, ma per chiaro e riconoscibile, senza balbettii e contraddizioni. Partendo da quali contenuti? Provo a dirlo con tre formule, necessariamente tagliate con l’accetta: (1) crescita sostenibile (dove l’aggettivo fa da volano e non da freno al sostantivo); (2) redistribuzione a misura di XXI secolo (per combattere tutte le disuguaglianze, non solo nel reddito); (3) qualità delle istituzioni (perché crescita economica e sviluppo umano dipendono dalla capacità della democrazia rappresentativa di funzionare e dare risposte al passo con i tempi che viviamo).
Dopo che i governi a guida Pd – soprattutto quello di Matteo Renzi durante il quale erano più forti sia il capitale politico sia lo slancio riformista – hanno messo in campo riforme strutturali rinviate da decenni e accompagnato l’Italia fuori da una delle crisi più dure della sua storia economica, stiamo assistendo a un pericoloso passo indietro. Incertezza, deterioramento delle aspettative, aumento del costo del denaro e taglio degli investimenti ci stanno facendo ripiombare in recessione. E il tessuto economico e sociale del nostro Paese non può permetterselo. La prima cosa da fare è cambiare prospettiva rimettendo al centro crescita e produttività. Con un taglio strutturale del costo del lavoro a tempo indeterminato. Con forti investimenti su scuola e università, sul diritto soggettivo a un’istruzione di qualità dalla culla alla tomba e su tutto il territorio nazionale. E con il rilancio degli investimenti pubblici e privati, recuperando gli strumenti di Industria 4.0 e spendendo subito i 150 miliardi di risorse stanziate per opere pubbliche da avviare tra il 2018 e il 2023. I cantieri sono chiusi non per mancanza di fondi, ma per i ritardi ideologici di questo governo. Non ci sono codici da riscrivere, ma ministri da mandare a casa.
Allo stesso tempo dobbiamo avere una sola ossessione in testa: fare in modo che i benefici della crescita raggiungano tutti, soprattutto gli ultimi della fila. È vero che non c’è redistribuzione senza crescita, ma questo non può essere un alibi per non porsi il problema di come farla nel XXI secolo. Di come portare avanti chi è nato indietro, per dirla con Pietro Nenni. Farlo in un mondo che cambia, senza che la nostalgia per il secolo d’oro della socialdemocrazia ci impedisca di trovare risposte aggiornate. Sta qui il cuore della crisi delle forze di sinistra nel mondo. Pensare di uscirne negando l’utilità della distinzione tra destra e sinistra sarebbe un regalo ai populisti. Sono loro, infatti, che negano la necessità del pluralismo tra visioni del mondo diverse, perché tutto si riduce allo scontro tra popolo innocente ed élite corrotte. Chi vuole sconfiggerli deve ridare un senso a quella distinzione, tra destra e sinistra, non negarla.
Per mettere in campo strumenti efficaci di lotta alle disuguaglianze, dobbiamo capire che non conta solo la dispersione nel reddito, anche a fronte dello smarrimento sociale delle classi medie. Amartya Sen ci parla di “capacità”, che altro non sono che la trascrizione delle nostre sfere di libertà: quella di perseguire il proprio progetto di vita, di sottrarsi a malattie evitabili, di trovare un impiego decente, di accedere a un’istruzione di qualità, o di vivere in una comunità libera dal crimine. La nostra lotta senza quartiere alle disuguaglianze non può che abbracciare tutte queste dimensioni.
C’è anche una questione salariale nel nostro Paese, a partire dalle opportunità di giovani e donne. Serve un salario minimo legale, l’abolizione dei tirocini gratuiti e una battaglia per la parità di genere nelle opportunità di carriera, perché un lavoro onesto richiede una paga onesta, sempre. Serve l’assegno unico per ogni figlio a carico in tutte le famiglie (dipendenti, autonomi, incapienti) e un budget di cura per le persone non autosufficienti, favorendo allo stesso tempo natalità e occupazione femminile. Servono nuovi investimenti contro la povertà educativa.
Avanziamo due proposte fiscali su cui dovrebbe dare battaglia chi ha a cuore l’uguaglianza (pur sapendo che il fisco non basta: dati i livelli di pressione fiscale raggiunti dalle nostre economie, fare redistribuzione nel XXI secolo significa innanzitutto rimettere in ordine lo Stato aumentando l’efficienza e l’equità dei servizi pubblici). Entrambe le proposte si basano su principi semplici nella loro radicalità. Primo: chi guadagna di più, paghi di più. Secondo: le imprese che operano in Italia, grandi o piccole che siano, paghino le tasse in Italia.
Quando si parla di tasse sui redditi, si discute sempre di aliquote, non dei redditi a cui quelle aliquote si applicano. Ma ormai l’Irpef è diventata l’Irped: l’imposta su dipendenti e pensionati, i cui redditi, da soli, sono quasi 700 degli 800 miliardi di imponibile. Mancano all’appello oltre 200 miliardi, che godono di troppe cedolari di diritto e di una grande cedolare di fatto che si chiama evasione fiscale. Dobbiamo tornare a un’unica imposta su tutti i redditi, superando i regimi speciali – che favoriscono soprattutto chi ha grandi capitali o fa soldi sulle rendite – ed estirpando l’evasione con un superamento graduale del contante. Ferma restando la possibilità di detrarre le spese di utilizzo per chi mette a frutto il proprio capitale, per esempio un immobile. E soprattutto: quest’unica imposta sul reddito deve essere progressiva. Altro che “flat tax”. In questo modo, il recupero di gettito sui redditi alti o su quelli oggi evasi permetterebbe di ridurre le tasse su quelli medio-bassi, rafforzando la strategia degli 80 euro e rendendola più sistematica.
Non solo. Quando cambia il mondo del lavoro e della tecnologia, dobbiamo cambiare anche come si tassa. L’anno scorso il cantante Ed Sheeran ha versato più soldi al fisco britannico di Starbucks e Amazon. Non ha senso. In un’economia sempre più immateriale non è accettabile che anche la base imponibile sia immateriale, perché chi ha potere economico la sposta in un paradiso fiscale. Il progetto Beps dell’Ocse e del G20 ha frenato le pratiche più aggressive di pianificazione fiscale internazionale. Ma se aspettiamo il treno degli accordi multilaterali, rischiamo di perdere quello dell’uguaglianza. L’Italia e altri paesi disponibili devono adottare una misura unilaterale in chiave anti-elusiva: una “minimum tax” sugli utili prodotti dalle multinazionali estere. Quanto dichiarato secondo le regole ordinarie deve essere confrontato con gli utili globali pesati per un indicatore di presenza in Italia. Se il calcolo si rivela maggiore, deve scattare un meccanismo di rideterminazione (con eventuale credito per le imposte pagate all’estero) in modo da riportare in Italia quanto dovuto al nostro Paese.
Per sconfiggere i populisti, dobbiamo rinnovare la democrazia rappresentativa e arginare la deriva verso una confusa democrazia diretta, dove uno vale uno e tutti valgono niente. La riforma costituzionale portata avanti dal Pd e respinta dal corpo elettorale conteneva due principi guida, che mantengono il loro valore. Il primo è il perfezionamento del rapporto tra centro e periferia con una Camera delle autonomie. Il secondo è la possibilità degli elettori di incidere direttamente sulla scelta del governo. Senza sciogliere questi nodi, la democrazia italiana si indebolirà ogni giorno di più. E un altro nodo per la qualità delle istituzioni è il tema della giustizia giusta. La presunzione d’innocenza e il giusto processo sono i capisaldi che guidano il nostro pensiero. Capisaldi messi seriamente in pericolo dal governo giallo-verde. E in questa ottica il tema della separazione delle carriere appare ineludibile per garantire un giudice terzo e imparziale. Così come quello di accelerare i processi per garantire maggiore giustizia, soprattutto ai più deboli.
Se ci crediamo, la costruzione di un’alternativa credibile è a portata di mano. Ma servono pensieri lunghi e passi lenti. Mentre in giro si vedono ancora troppi pensieri corti (o rivolti all’indietro) e passi affrettati. È per questo che una leadership mite ma determinata come quella di Maurizio Martina è il cambio di prospettiva che ci serve, per dare gambe alle idee che abbiamo messo nero su bianco nella nostra mozione.