La Stampa

Crescita, il peso delle disuguaglianze In tre per il Nobel dell’economia

Tommaso Nannicini
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Daron Acemoglu che riceve il premio Nobel per l’economia è un po’ come Lionel Messi che vince la Coppa del Mondo. Tutti se lo aspettavano da anni, ma alcuni cominciavano a dubitare che il riconoscimento sarebbe arrivato, nonostante la giovane età del vincitore. Si diceva: è il più bravo, ma qual è il singolo contributo che giustifica l’assegnazione del premio? Ci ha pensato la Commissione del Nobel a rispondere in maniera definitiva, attribuendoglielo insieme ai suoi colleghi e coautori Simon Johnson (anche lui al MIT di Boston) e James Robinson (Harris School di Chicago). La motivazione ufficiale è legata a due contributi: gli studi empirici sugli effetti di lunga durata delle istituzioni politiche sulla prosperità economica e gli studi teorici su come queste istituzioni possano cambiare, ad esempio con sommovimenti che trasformano le dittature in democrazie. Politica e storia: aver portato queste due dimensioni al centro dell’economia, con rigore e creatività metodologica, è il vero motivo dietro al Nobel.

Dopo un articolo di Acemoglu, Johnson e Robinson sull’American Economic Review del 2001, generazioni di studiosi e studiose si sono lanciate nell’analisi statistica dell’impatto delle istituzioni politiche sull’economia, contribuendo così al filone della cosiddetta “political economy”, spesso utilizzando dati storici per svelare legami di causa ed effetto. Il loro studio avanzava una tesi semplice a dirsi, ma difficile da dimostrare empiricamente: che la natura delle istituzioni politiche imposte dalle potenze europee sui Paesi che avevano colonizzato ha influenzato la loro crescita economica, anche dopo l’indipendenza. Gli anelli della catena che spiega questo effetto sono più o meno questi: laddove le condizioni di vita erano peggiori e la mortalità dei coloni (soldati, preti e commercianti) era maggiore, le potenze coloniali si limitavano a introdurre istituzioni dittatoriali ed estrattive, volte solo a sfruttare le popolazioni locali. Laddove, invece, le condizioni di vita erano migliori, i coloni europei si stabilivano nei nuovi territori e facevano pressione per ottenere istituzioni più inclusive, attente ai diritti di proprietà e alla partecipazione dei cittadini. Queste istituzioni coloniali hanno finito per influenzare le costituzioni e i sistemi giuridici adottati dai futuri stati indipendenti e, tramite questi, la loro crescita economica. Ciò è avvenuto indipendentemente dall’identità dei colonizzatori (inglesi, spagnoli, francesi o portoghesi) e non è spiegato da altri fattori come il clima, la religione, le risorse naturali o la frammentazione etnolinguistica.

Perché la storia del colonialismo europeo interessa chi studia l’economia e parla anche ai nostri giorni? Perché evidenzia l’importanza dei fattori politici per la prosperità economica e spiega come istituzioni e scelte politiche non siano né neutre né determinate dall’economia, ma rispondano a conflitti di potere che trovano equilibri diversi in contesti distinti. È grazie agli studi di political economy se si è capito che il compito della scienza triste non è fornire soluzioni “tecniche” di politica economica calate dall’alto, ma mettere in luce come ogni scelta collettiva sia intrinsecamente politica e abbia bisogno del percorso giusto per materializzarsi. Come hanno scritto Acemoglu e Robinson: “Esistono forze sistematiche che trasformano una buona raccomandazione della scienza economica in una cattiva scelta politica: anche quando possibile, eliminare un fallimento del mercato non necessariamente migliora l’allocazione delle risorse a causa dei suoi effetti sui futuri equilibri politici.”

Queste riflessioni valgono anche per il progresso tecnologico, al cui studio si stanno dedicando Acemoglu e Johnson negli ultimi anni (si veda il loro libro del 2023, Power and Progress). L’evoluzione dell’intelligenza artificiale non è neutra né dettata dalla tecnica, ma risponde a scelte politiche. Ed è forse il momento che la politica ci metta la testa, altrimenti quelle scelte verranno prese da qualcun altro. Lo sappiamo: oggi gli stati nazionali hanno strumenti spuntati rispetto allo strapotere dei giganti del digitale. Ma proprio per questo è forse arrivato il momento di rafforzare le istituzioni politiche sovranazionali, per gestire i conflitti del nostro tempo. L’alternativa, da scongiurare, non riguarda scenari da fantascienza in cui gli esseri umani sono asserviti alle macchine, ma scenari, purtroppo realistici, in cui la stragrande maggioranza degli esseri umani è asservita a quei pochi che traggono profitti dalle macchine.

Checché ne pensasse Karl Marx, le istituzioni politiche non sono una mera appendice della struttura economica: sono una delle chiavi della prosperità. Il Nobel per l’economia di quest’anno ci invita a ricordarcelo.