Unità

Crescita, non basta una droga

Tommaso Nannicini
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Meno austerità, più riforme. Almeno a parole, sembra essere questo il nuovo mantra della politica economica europea. Lunedì scorso anche il ministro dell’economia tedesco, il socialdemocratico Sigmar Gabriel, si è detto favorevole a un nuovo corso che ammorbidisca le regole sul deficit, a patto che i paesi “fuori target” procedano spediti sulla strada delle riforme. A questo punto, per evitare altri passi falsi, è importante chiarirsi le idee su due punti. Di quali riforme stiamo parlando? E quali meccanismi comunitari si possono usare per far scattare una condizionalità di questo tipo?

Come mi è capitato di scrivere su queste colonne, un po’ di deficit in più, per un Paese come il nostro che in passato ha abusato della droga della spesa in disavanzo e delle svalutazioni competitive, può rappresentare il metadone che ci permetta di sopravvivere alla crisi e – soprattutto – di fare riforme per riattivare la crescita. Ma ci illuderemmo se pensassimo di creare sviluppo a colpi di stupefacenti (deficit eccessivi o Eurobond che siano). L’Italia, al pari di molti paesi europei, dovrà realizzare un profondo aggiustamento della propria specializzazione produttiva, accompagnando capitali e lavoratori da settori poco dinamici verso altri con maggiori potenzialità di crescita.

È impensabile lanciarsi in quest’opera titanica di trasformazione economica senza una burocrazia e una giustizia che funzionino, senza ammortizzatori sociali degni di questo nome, con scarsi investimenti nella qualità dell’istruzione, e senza un fisco e delle regole del gioco che premino chi rischia e chi investe sul proprio impegno e sulle proprie capacità. Il problema è che per fare tutte queste belle cose servono interventi che, nell’immediato, possono avere un impatto recessivo o incontrare forti resistenze politiche, più o meno legittime. Per far digerire le riforme, un po’ di flessibilità nella gestione del bilancio pubblico può dare una mano. Ma solo se si procede spediti sulla strada del cambiamento. Altrimenti andremo di nuovo a sbattere contro il muro della stagnazione della produttività.

Se il nostro Paese recupererà credibilità politica, come ha già iniziato a fare, e se l’Europa deciderà davvero di voltare pagina, non sarà difficile individuare i meccanismi per gestire una nuova condizionalità virtuosa (leggi: riforme in cambio di un po’ di deficit in più nel breve periodo). Si potrebbe pensare a una gestione meno barocca e punitiva delle procedure d’infrazione, che già oggi offrono ampi spazi di manovra a chi vi incorre, ma che risulterebbero pericolose se avviate in via unilaterale da un Paese con il nostro debito pubblico. In alternativa, potremmo attivare uno strumento come gli “accordi contrattuali” proposti dalla Commissione Europea più di un anno fa ma ancora in attesa d’attuazione, chiedendo che una scaletta precisa di riforme sia scambiata con una maggiore flessibilità di bilancio.

Per l’Italia, inoltre, resta il nodo strutturale dell’alto debito pubblico. Anche il Fondo Monetario Internazionale ha invitato l’Europa a non fossilizzarsi troppo sul deficit, senza dimenticarsi però del problema del debito, che può creare instabilità finanziaria e drenare risorse pubbliche sempre più scarse. Se l’inflazione europea fosse davvero al livello programmato del 2 per cento e se la crescita del Pil reale ripartisse anche lentamente, gli obiettivi del Fiscal Compact sarebbero a portata di mano senza grandi sforzi anche per il nostro Paese. Il segreto sta quindi nel capire se la politica monetaria europea ci verrà incontro. E se le mosse del governo sosterranno un cambio delle aspettative non solo degli elettori (come si è visto alle europee) ma anche di imprenditori e consumatori. Se queste leve non risulteranno sufficienti, sarà indispensabile procedere spediti sulla strada di privatizzazioni i cui ricavi servano esclusivamente a ridurre lo stock del debito, come il governo ha in ogni caso già annunciato di voler fare.

Le nomine ai vertici dell’Unione e il semestre italiano di presidenza saranno passaggi decisivi. Se l’Italia giocherà bene le sue carte, l’immagine del nostro Paese come malato d’Europa e del nostro continente come fanalino di coda della ripresa globale potrebbero diventare un mero ricordo. In tempo di mondiali di calcio, giustamente, speriamo tutti nella vittoria della nostra nazionale. Ma non dimentichiamoci di questa partita sullo scacchiere europeo: vincerla o perderla farà una grossa differenza.