La rivincita. Il ritorno. Il giorno dopo. Come nei sequel dei film, i sottotitoli si sprecano. Ma nel caso di Donald Trump le metafore cinematografiche lasciano il tempo che trovano, perché nei prossimi quattro anni il suo film cambierà genere.
Nel 2016, gli Stati Uniti, il mondo, il partito repubblicano e lo stesso presidente americano erano molto diversi da oggi. Allora, Trump usò il populismo come trampolino elettorale e finì per governare alla giornata, tra imprevisti e compromessi. Oggi, insieme al suo vicepresidente J.D. Vance e al suo sponsor Elon Musk, sembra determinato a trasformarlo in un’ideologia di governo. Che cosa ci aspetta?
L’economia sarà la chiave di volta di questo esperimento. L’ha preannunciato Vance con la consueta linearità, usando il minuto che gli veniva concesso durante il discorso della vittoria di Trump per annunciare che “dopo il più grande rilancio politico nella storia degli Stati Uniti, guideremo il più grande rilancio economico”. Trump stesso si è affrettato a preannunciare un’età dell’oro, che ricorda molto il nuovo miracolo economico di berlusconiana memoria. Come ha spiegato Donald Sassoon su queste colonne, il trionfo dell’ex presidente – che ha recuperato consensi in tutti i segmenti demografici, inclusi quelli a lui più sfavorevoli – ha molto a che fare con le ansie economiche. Le paure sulla fine del mese hanno pesato di più delle paure sulla fine del mondo.
L’indice Gallup che cattura la fiducia delle persone sulla situazione economica, negli ultimi due anni di presidenza Biden, ha viaggiato costantemente ai minimi storici degli ultimi vent’anni, eguagliando giusto la crisi finanziaria del 2008.
Per carità, oltre all’economia, hanno pesato altri fattori. C’è stata l’empatia: dai bitcoiner agli evangelici, dai tifosi agli agricoltori, si è creata una coalizione variopinta che pensa di essere capita dall’ex presidente (“He gets us”) di fronte all’ansia provocata dal cambiamento sociale, economico e culturale. (E serve a poco ricordare che parliamo di un miliardario che viaggia su jet privati e non sa che cosa sia un supermercato, a meno che non rientri in una speculazione edilizia; in fondo, anche i fratelli Kennedy non venivano proprio dai bassifondi.) Poi c’è stata la protesta: la rabbia verso le ricette delle élite politico-economiche e la voglia di sbattergliela in faccia. (E serve a poco far presente che le ricette trumpiane fanno acqua da tutte le parti; ai populisti si richiede uno sfogo per la rabbia e il disincanto rispetto alla politica tradizionale, non soluzioni, tanto quelle nessuno le ha.) Tuttavia, l’economia resta il tema centrale dietro alla scelta di molti elettori e Stati in bilico. Altri temi cavalcati dai democratici, seppur sentiti, non hanno pesato allo stesso modo. Si pensi alla libertà riproduttiva e alla difesa del corpo delle donne: in molti Stati, dal Missouri al Montana, ci sono stati, per fortuna, referendum favorevoli al fronte progressista, ma questo non ha impedito all’elettorato di premiare Trump nelle elezioni presidenziali che si sono tenute nello stesso giorno.
Che cosa dobbiamo aspettarci dalla Trumponomics? I mercati hanno detto la loro: prevedono una maggiore crescita nominale negli Stati Uniti. È curioso. Per quanto si dica che il trumpismo abbia stravolto l’identità dei repubblicani, gli operatori finanziari si aspettano le stesse ricette di sempre: meno tasse, più deficit e meno regole. Di sicuro, ci saranno meno regole (e investimenti) in campo ambientale, anche se resta da vedere quanto del piano Biden verrà effettivamente cancellato e che ruolo giocherà Musk con le sue auto elettriche. Verranno confermati i tagli fiscali della prima presidenza Trump, anche se non è chiaro quanto margine ci sia per ulteriori riduzioni, dato che il debito è ai massimi storici. Le rotture arrivano da altri fronti, con una “deglobalizzazione” tutt’altro che gentile: più dazi e meno immigrazione.
D’altronde, i democratici su questo sono risultati poco credibili, subendo un’egemonia che ha di fatto “trumpificato” le politiche pubbliche statunitensi negli ultimi anni.
Resta da vedere quanto la nuova amministrazione Trump potrà tirare la corda su questi due fronti. Sui dazi, la Cina non starà a guardare, e poiché sono imposti sull’ultimo paese esportatore, rischiano di stravolgere le catene commerciali. Già si parla di investimenti cinesi in Messico (come in Vietnam in passato). Per una curiosa eterogenesi dei fini, potrebbero essere le aziende cinesi ad aiutare i messicani “a casa loro,” con il risultato che gli Stati Uniti si troverebbero l’ingombrante presenza economica cinese nel cortile di casa. Lo stesso vale per l’immigrazione, vitale per il mercato del lavoro statunitense. Alla fine, Trump sarà costretto ad adottare quelle che il politologo australiano Allan McConnell ha chiamato “leggi placebo”: misure simboliche che comunicano la volontà di affrontare un problema, ma senza un reale impatto.
Paradossalmente, i segnali più preoccupanti arrivano dalla politica tecnologica, dove i vincoli sono minori. E l’influenza di Musk (che ha finanziato un decimo della campagna di Trump) lascia pensare a meno regole, più concentrazione di potere economico e maggiore sostituzione di lavoro. L’opposto di ciò di cui avrebbero bisogno gli Stati Uniti e il mondo.
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