Il tanto sbandierato decreto legge che il ministro Di Maio si è affrettato a presentare come fiore all’occhiello di questo avvio di legislatura, somiglia molto al proverbiale topolino partorito dalla montagna. Già sul nome “decreto dignità” ci sarebbe da eccepire: fermiamoci tutti un attimo ed evitiamo di sposare acriticamente la neolingua del governo gialloverde. Se proprio vogliamo trovargli una definizione quella di “decreto svuota cassetti” mi sembra la più coerente: l’impressione infatti è che si sia chiesto a qualche burocrate di tirare fuori dal cassetto norme accantonate da tempo. Accantonate, evidentemente, per una ragione valida. Di sicuro, quelle contenute nel decreto sono misure lontane dai problemi reali delle persone e del mondo del lavoro.
Ma vediamo alcune delle bufale diffuse dal ministro. Innanzitutto, contrariamente a quanto sbandierato a più riprese, non si abolisce affatto il Jobs act. Se questo è il suo obiettivo, Di Maio è in tempo, deve abolire il contratto a tutele crescenti: con il suo decreto invece verranno solo innalzati leggermente gli indennizzi iniziali (da 4 a 6 mensilità per i primi due anni) ma l’impianto generale rimarrà intatto. Non solo: il Jobs act è anche lotta alle finte partite Iva e alle collaborazioni organizzate dal committente. Quello che il ministro finge di ignorare, quando si fa immortalare su Instagram al fianco dei rider chiedendo che venga siglato anche per loro un accordo collettivo, è che l’unico modo per farlo è applicare una norma del decreto 81/2015 del Jobs act, che applica la disciplina del lavoro subordinato anche ai finti lavoratori autonomi. Di Maio pensa di abolire anche quel pezzo del Jobs act a un certo punto? Piuttosto, perché non lo estende alle collaborazioni organizzate da piattaforme digitali, come propongo in un disegno di legge che ho appena presentato? Sui rider il decreto “svuota cassetti”, invece, non dice una parola. Di Maio ne dice molte, ma a vuoto, se non propone interventi conseguenti.
Si tratta di un decreto “svuota cassetti”, poi, che non riduce affatto il precariato. Perché il tempo determinato e il lavoro su somministrazione – soprattutto quelli di lunga durata e concatenati tra loro – vanno sì ridotti nell’utilizzo ripetuto ma il vero precariato è altrove: finte partite Iva, cooperative spurie, collaborazioni simulate, tempi pieni mascherati da part-time, contratti pirata. Il Jobs act ha contribuito a circoscrivere alcune di queste distorsioni, ma c’è ancora molto da fare.
Nessun riferimento infine al tema cruciale della qualità del lavoro: nessun vero incentivo alle stabilizzazioni, nessuna soluzione per quanto riguarda il sostegno alla contrattazione collettiva per rafforzare la posizione dei lavoratori e nessun accenno a un salario minimo per chi dalla contrattazione collettiva è escluso. In Italia quello delle basse retribuzioni è, insieme a quello della formazione, il principale limite del mercato del lavoro e nel decreto non c’è traccia di nessuno dei due.
Sul resto, cioè sulle norme fiscali, meglio sorvolare perché qui la logica “svuota cassetti” è fin troppo evidente (non è vero per esempio che si abolisce lo spesometro, che viene solo rinviato per il terzo trimestre di quest’anno). E senza contare quelle norme che aumentano invece l’incertezza e scoraggiano gli investimenti delle imprese.
Non c’è una visione e, di conseguenza, non ci sono soluzioni ai problemi del mondo del lavoro. Se il buongiorno si vede dal mattino e non da Facebook, il Paese purtroppo pagherà un conto salato di fronte a tanta improvvisazione.