«Sono un socialista italiano e lo rivendico orgogliosamente. Non come D’Alema, che diceva di essere diventato socialista europeo senza esserlo mai stato in Italia, come se fosse qualcosa di cui vantarsi». Non è solo un economista, Tommaso Nannicini, né tantomeno un agnellino, come molti lo dipingono. Soprattutto, il responsabile del programma elettorale del Partito Democratico, capolista al Senato nel collegio di Milano, respinge con fermezza la vulgata secondo cui il Pd a guida Renzi abbia smarrito la sua identità di sinistra. Peggio, che sia più a destra della destra, come ha recentemente affermato Nicola Fratoianni di Liberi e Uguali, secondo cui “Renzi è stato peggio di Berlusconi”: «A questa critica si risponde con due argomenti – spiega Nannicini – il primo dei quali è meramente fattuale: le nostre scelte di governo, negli ultimi cinque anni, sono state ispirate dall’obiettivo di garantire una crescita più inclusiva e un welfare più universale. Loro continuano a farne un argomento da convegno. Noi siamo passati alle scelte».
Qualche esempio, Nannicini?
Più di uno. All’inizio della nostra esperienza di governo, per il sostegno alla povertà c’erano 40 milioni stanziati in via sperimentale. Ce ne andiamo con una misura unica come il Reddito d’Inclusione per la quale abbiamo stanziato 2,7 miliardi. Una misura non solo assistenziale, peraltro, ma che prevede anche l’attivazione di chi la riceve. Continuo: i primi sussidi per i nuovi lavori previsti in una delega mai attuata dal governo D’Alema erano senza oneri aggiuntivi per lo Stato. Noi abbiamo messo due miliardi su un sussidio di disoccupazione universale, secondo solo a quello danese. Fatti, non convegni. Chi dice che abbiamo smarrito il faro della disuguaglianza racconta bugie, o non sa di cosa parla.
Parlava di due argomenti, per respingere questa critica…
«Il secondo argomento è di prospettiva. Noi dobbiamo metterci d’accordo su cosa voglia dire essere di sinistra oggi».
E cosa significa, secondo lei…
«Significa, come diceva Pietro Nenni, che bisogna portare avanti chi è nato indietro. Bisogna farlo partendo dal grande compromesso socialdemocratico, quello tra capitalismo di mercato e Stato sociale, una delle più grandi invenzioni del ventesimo secolo insieme alla penicillina. Il nostro problema è che quel compromesso va superato, non perché ha fallito, ma perché ha avuto successo. Oggi la società non è più una piramide, con tanti poveri in basso e pochi ricchi in alto, bensì un diamante, con una classe media più ampia e con bisogni diversificati».
Vero, ma oggi la realtà racconta un’altra storia che il Censis chiama paura dello smottamento. In altre parole il rischio è che il diamante torni a essere una piramide. Che chi nasce avanti, possa tornare indietro. In questa nuova fase, la destra sembra avere più argomenti di voi…
«Servono entrambe le cose: evitare lo smottamento e costruire un welfare post-socialdemocratico. Nel nostro programma di governo ci sono molte proposte contro il rischio di smottamento sociale. Il salario minimo universale, per esempio, che non abbiamo noi e soli altri cinque Paesi europei. E poi misure per incentivare la natalità, dal sussidio per i nuovi genitori alle misure a sostegno dell’occupazione femminile. È inconcepibile che fare figli, in questo Paese, voglia dire aumentare esponenzialmente il rischio di finire in povertà. Noi parliamo di questo. Gli altri hanno la flat tax che vuol dire mandare ancora più avanti chi è nato avanti».
A proposito di flat tax. Nicola Rossi, uno dei sostenitori della tassa piatta, ha rimarcato l’idea che la redistribuzione della ricchezza non può essere affidata unicamente al fisco, e più nello specifico alle tasse sul lavoro…
«Su questo sono d’accordo con lui. L’uguaglianza nella distribuzione del reddito è senz’altro importante. Ma se per raggiungerla si diminuiscono le opportunità di qualcuno? O se la si raggiunge sacrificando l’uguaglianza tra generazioni? Amartya Sen parlava di capacità, che altro non sono che la trascrizione delle nostre sfere di libertà: quella di inseguire i propri sogni, di sottrarsi a malattie evitabili, di trovare un impiego decente o di vivere in una comunità libera dal crimine. La lotta alle disuguaglianze deve abbracciare tutte queste dimensioni».
Domanda: come si raggiunge questa idea di uguaglianza? O meglio: come si porta avanti chi è nato indietro in una società bloccata come quella italiana?
«Prima di tutto, con la formazione. Che vuol dire diritto allo studio, lotta alla povertà educativa, formazione permanente per evitare che le nuove tecnologie ti sbattano fuori dal mondo del lavoro».
Voi avete fatto una riforma importante come la Buona Scuola: qualcosa non ha funzionato?
«Non è la riforma perfetta, indubbiamente, ma rivendico l’inversione di tendenza. Per la prima volta dai tempi di Prodi si è scommesso sull’autonomia e quindi sulle persone che la scuola la fanno. E per la prima volta in assoluto si è cercato di mettere al centro gli interessi di chi a scuola ci va, gli studenti. I governi precedenti avevano tagliato brutalmente i fondi. La Buona Scuola, piaccia o meno, è anche un investimento di oltre 3,5 miliardi in istruzione, a cui se ne aggiungono 10 per l’edilizia scolastica fino al 2020. Lo stesso vale per i 300 milioni che abbiamo messo sulla ricerca di base. Bisogna investire di più? Sì, bisogna investire di più. E bisogna far sì che questi benefici raggiungano tutti. Non è solo una questione di scuola, peraltro: usciamo dall’idea che scuola e lavoro siano silos separati. L’alternanza scuola-lavoro è un primo passo in questa direzione. E per noi l’istruzione va dalla culla alla tomba, per questo nel programma parliamo di asili nido e di formazione permanente».
Secondo Carlo Cottarelli, per ridurre il divario tra nord e sud è necessario investire nelle scuole del Mezzogiorno, per rafforzarne il capitale umano…
«Sono d’accordo pure con Cottarelli: non per niente ogni volta che nel nostro programma parliamo di scuola e università parliamo di Sud, dal tempo pieno ai poli d’eccellenza. La lotta alle disuguaglianze passa soprattutto dal rafforzamento del capitale umano, è vero, ma non dobbiamo nemmeno pensare che sia tutto qua. Oggi le potenziali classi dirigente del Sud vanno a realizzarsi altrove, al Nord o all’estero. Per questo ritengo che infrastrutture e investimenti produttivi siano altrettanto importanti».
Secondo il ceo di Adecco Group Alain Dehaze, invece, all’Italia mancano i poli d’eccellenza formativa, quelli che permettono di attrarre i talenti migliori…
«Di più. L’Italia non sa selezionare. Abbiamo una concezione dell’uguaglianza che è caricaturale, che nega le differenze anziché combattere le ingiustizie. È importante far correre chi può correre e aiutare chi rimane indietro. La dispersione delle eccellenze è un problema. I nostri ricercatori sono i più produttivi al mondo, ma non fanno massa critica. Per questo, per l’appunto, servono poli d’eccellenza: a Milano, nell’area Expo. E a Napoli, dove vogliamo crearne uno analogo».
Tutto molto bello, ma i giovani votano tutti i partiti tranne il Pd. Come se lo spiega?
«In realtà sono i 30/40enni che non votano Pd. È la generazione perduta della Seconda Repubblica, quella che è stata fregata dalle classi dirigenti di questo Paese, che sono rimaste ferme, che non hanno fatto riforme e innovazione. Quell’immobilismo l’abbiamo pagato caro. E in particolare l’ha pagato la generazione di chi non aveva più le vecchie garanzie costruite all’ombra del debito pubblico e non aveva ancora le nuove opportunità».
Come pensate di recuperarli?
«Abbiamo solo una strada: darci una mossa e continuare le riforme che abbiamo avviato. Ci sono un sacco di giovani occupati stabili che senza di noi avrebbero avuto un Cocopro o una finta Partita Iva e non potrebbero andare in banca a chiedere un mutuo. Oggi Berlusconi promette una decontribuzione alle nuove assunzioni che abbiamo già fatto noi. Abbiamo sbloccato il turnover nella pubblica amministrazione e ora abbiamo 500mila assunzioni nel pubblico impiego per innervarla di nuove competenze. Abbiamo fatto tante cose, ma c’è bisogno di tempo per recuperare quello che abbiamo perso. Purtroppo, per quella generazione il tempo è già scaduto da un bel po’».
A proposito di non più e non ancora, un altro problema italiano è il buco nel welfare per i giovani che finiscono gli studi ma non hanno ancora iniziato a lavorare. In altri Paesi d’Europa ci sono strumenti per dar loro un sostegno in quella fase, per accelerarne l’autonomia dalla famiglia. Noi invece siamo il Paese in cui fino a 37 anni si sta a casa coi genitori…
«Noi nel programma diciamo innanzitutto che la transizione verso il primo lavoro e la stabilizzazione è troppo lunga. Per prima cosa, quindi, rafforziamo le opportunità, investiamo sull’apprendistato, potenziamo le politiche attive del lavoro, prevediamo un sostegno economico per chi affitta un appartamento. Fatto questo, si può ragionare su strumenti di welfare per l’inserimento. Ovviamente, condizionandoli alla ricerca attiva di un posto di lavoro».
Un’ultima domanda: è Macron il vostro principale interlocutore in Europa?
«Macron è un interlocutore importante per costruire la nuova Europa, un po’ meno per costruire la nuova sinistra».
A chi vi ispirate, allora. Vietato dire Tony Blair e la terza via..
«Non più, ormai. La terza via è stata un parziale insuccesso e dobbiamo esserne consapevoli. La domanda era giusta, ma le risposte non sono arrivate. Nello stesso tempo, alle insicurezze non si può rispondere solo con più spesa pubblica e più debito. La sinistra europea deve scrivere un nuovo patto sociale per il XXI secolo, partendo dalla valorizzazione del capitale umano, dall’istruzione come elemento di mobilità sociale e dalla consapevolezza che a impedire l’emancipazione della popolazione non è solo l’assenza di reddito. Il marxismo è morto, la socialdemocrazia ha esaurito la sua funzione storica, ma della sinistra c’è ancora bisogno».