C’è un sottile filo rosso che collega le scelte finanziarie a quelle politiche. Un filo rosso che si chiama educazione finanziaria. Basta pensare all’Italia, che tutti gli indicatori internazionali segnalano sempre agli ultimi posti sia per i livelli di conoscenze in campo economico, sia per la solidità dei comportamenti individuali in ambito finanziario. Forse non è un caso, infatti, se siamo in cima a due classifiche diverse: quella di chi investe in immobili e quella di chi ha partiti specializzati nell’arte delle promesse irrealizzabili. Mattone e bidone. Le due cose vanno spesso a braccetto. Se non sai perché e come investire, vai sul sicuro, su beni materiali come la casa, prima, seconda o terza che sia. Se non sai valutare bene le ripercussioni differite delle scelte di politica economica, attraverso il loro impatto sull’indebitamento pubblico, sull’occupazione o sui mercati finanziari, finisci per dare credito a proposte politiche che non ne meriterebbero.
È per questo che innalzare i livelli diffusi di conoscenze economiche e finanziarie finisce per aumentare sia il benessere delle famiglie, sia la qualità delle politiche pubbliche. Negli ultimi decenni, questa necessità si è fatta sempre più pressante. Dal lato della domanda, l’invecchiamento della popolazione e i mutamenti tecnologici del mondo del lavoro hanno aumentato il bisogno di strumenti che diano una maggiore stabilità al reddito durante tutto il ciclo di vita (consumption smoothing). Ma non tutte le persone hanno acquisito piena consapevolezza di questi cambiamenti, o hanno le conoscenze necessarie per scegliere gli strumenti in grado di farvi fronte. E tutto questo si traduce in fenomeni di sottoassicurazione rispetto ad alcuni rischi (inclusi quelli che minacciano il mattone di cui sopra) e nella continua procrastinazione di decisioni importanti per la solidità del proprio portafoglio previdenziale, sia pubblico sia privato.
Dal lato dell’offerta, poi, il taglio di vari programmi di spesa pubblica (che assicuravano ampi strati della popolazione magari in maniera inefficiente, ma almeno offrivano una qualche copertura), nonché la proliferazione di strumenti finanziari sempre più complessi sul mercato, hanno aumentato il livello di competenze necessarie per districarsi nel tentativo di dare stabilità al proprio reddito.
Che fare, allora? Purtroppo, i bassi livelli di educazione finanziaria sono un problema così endemico che qualsivoglia soluzione ha bisogno di due leve: il tempo e un approccio sistemico. Ci vuole tempo per portare a casa risultati. Gli indicatori, per esempio, mostrano una qualche convergenza delle nuove generazioni verso la media degli altri paesi, ma sempre con forti disparità al proprio interno e con un divario, quello di genere, che non si chiude. Le donne continuano non solo ad avere meno conoscenze finanziare, ma mostrano disinteresse rispetto ai temi economici, come se le riguardassero (si veda il libro di Azzurra Rinaldi: “Le signore non parlano di soldi. Quanto ci costa la disparità di genere?”, Fabbri 2023). Queste disparità vengono da lontano e non si affrontano con qualche corso online: serve scalfire quell’equazione così diffusa nella cultura collettiva per cui donna uguale cura. Un’equazione tanto sbagliata quanto portatrice di un corollario semplice e insidioso: per un principio di divisione del lavoro, meglio se le donne pensano ai figli e gli uomini pensano ai soldi. Naturalmente, questi stereotipi di genere stanno scomparendo nelle nuove generazioni. Ma più lentamente di quanto si possa credere. Educazione di genere e educazione finanziaria, in questo caso, si rinforzando a vicenda. Serve, appunto, un approccio sistemico.
Un approccio di questo tipo non può non far leva anche su un aumento dello spazio riservato alle materie economiche e finanziare nei percorsi d’istruzione obbligatoria. Ma non basta. Anche i corpi intermedi dovrebbero essere spinti e aiutati a fare la loro parte. Si pensi a quanto bisogno di educazione finanziaria hanno due categorie così diverse tra loro come gli sportivi e i piccoli imprenditori, e al ruolo che le loro organizzazioni di rappresentanza potrebbero giocare per innalzare le conoscenze dei propri associati rispetto a questi temi.
Il settore pubblico, da parte sua, dovrebbe continuare a promuovere una maggiore trasparenza nei mercati finanziari attraverso i propri interventi regolativi. E disegnare politiche pubbliche che facciano riflettere le persone sulle conseguenze delle decisioni finanziarie. Per esempio, prevedendo che ogni ammortizzatore sociale abbia contributi figurativi non solo per il primo pilastro, ma anche per la previdenza complementare. Facendo così capire che il portafoglio previdenziale è uno solo.
Insomma, Roma non fu fatta in un giorno. Ma da qualche parte dobbiamo iniziare. Perché senza una robusta educazione finanziaria continueremo ad avere scelte finanziarie sbagliate sul piano familiare, e politiche pubbliche strampalate sul piano politico. Due risultati che, nel mondo in cui viviamo, l’Italia non può più permettersi.