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Elezioni europee: qui non c’è concorrenza

Tommaso Nannicini
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Con l’avvicinarsi delle elezioni europee, torna d’attualità la discussione sulla legge elettorale. Si parla di correggere la legge in vigore con l’introduzione di una soglia di sbarramento e di liste bloccate. Quest’ultimo è un meccanismo che ha effetti perversi nella selezione dei candidati e impedisce ogni forma di concorrenza all’interno dei partiti. Le primarie sono un buon punto di partenza, ma non la panacea. Occorre anche ridurre al minimo le barriere d¹entrata e concentrare i dibattiti interni sui contenuti. Ed evitare che il Parlamento europeo non diventi una via di fuga per gli amministratori locali che hanno operato male.

C’è chi sostiene che regole fiscali particolarmente complicate e bizantine servono solo a dare lavoro ai commercialisti. Lo stesso si potrebbe dire per il dibattito sulle regole elettorali: fonte inesauribile di studi e commenti per politologi ed economisti. Adesso, è il turno delleelezioni europee. Si parla di correggere la legge proporzionale attualmente in vigore con l’introduzione di una soglia di sbarramento e di liste bloccate o semi-bloccate. I pro e i contro su cui si concentrano i partiti sembrano puramente opportunistici. Con i grandi che vogliono avvantaggiarsi a spese dei piccoli. E i piccoli che, difendendo le proprie rendite di posizione, cavalcano la protesta contro le liste bloccate per far saltare tutto ed evitare lo sbarramento.
Un aspetto solitamente lasciato in ombra riguarda gli effetti della legge elettorale sulla selezione politica. Come se le regole del gioco fossero una variabile indipendente rispetto alla qualità e agli incentivi dei politici. Sarebbe opportuno, invece, introdurre questi elementi di riflessione anche nel dibattito sulla riforma elettorale per le europee.
La classe politica, con lo scopo di accaparrarsi il consenso, ha il vizio di predicare bene e razzolare male. Solo se esistono avversari (interni o esterni), giornali e gruppi indipendenti con la forza per smascherarlo, il politico è spinto a disciplinarsi. Negli Stati Uniti, per esempio, la stampa confronta regolarmente le dichiarazioni di ogni politico con quello che ha detto dagli inizi della sua carriera. Esistono associazioni nate con il solo scopo di monitorare le politiche pubbliche e la loro vicinanza alle promesse elettorali. La concorrenza per il potere è alta: nelle primarie per scegliere presidenti, parlamentari e governatori, si sa chi entra ma non chi esce. In Italia, invece, tutti questi elementi sono fragili. E i risultati si vedono. La legge elettorale e i metodi per la selezione dei candidati potrebbero giocare un ruolo importante per invertire alcuni di questi meccanismi.

LEGGE ELETTORALE E CONCORRENZA POLITICA
Sull’attuale legge elettorale per il parlamento (il famigerato Porcellum) è già stato detto tutto il male possibile (anche da chi non l’ha né proposta né approvata, ma non si è fatto scrupoli a usarla per difendere le oligarchie di partito da qualsiasi concorrenza esterna). In presenza di partiti chiusi e autoreferenziali, il proporzionale con liste bloccate fornisce incentivi perversi nella selezione della classe politica. L’ evidenza empirica sui parlamentari eletti con la vecchia legge elettorale per le politiche (il Mattarellum, composto da un 75% maggioritario e un 25% proporzionale) mostra che gli eletti nel maggioritario, anche controllando per le caratteristiche che li distinguono dagli eletti nel proporzionale, hanno un tasso diassenteismo parlamentare più basso. E questo più essere in parte spiegato dal maggiore controllo degli elettori sugli eletti nei collegi uninominali. Siamo proprio sicuri di voler estendere l’esperienza delle liste bloccate alle elezioni europee?

In ogni caso, le regole elettorali, da sole, non bastano. È importante che vi sia una vera concorrenza politica. Sempre ai tempi del Mattarellum, nei collegi uninominali maggiormente contendibili (quelli dove l’esito elettorale era più incerto), i partiti tendevano a presentare candidati forti, cioè persone che vantavano una serie di successi nella professione privata o nella precedente carriera politica a livelli istituzionali più bassi. In particolare, l’incertezza elettorale era positivamente correlata con l’istruzione, il reddito privato prima dell’elezione e le esperienze amministrative. Nei collegi sicuri, invece, venivano presentati, in media, candidati più deboli e con un percorso politico tutto interno al partito. (1) Insomma, anche  in politica, la concorrenza è uno stimolo prezioso.

PRIMARIE APERTE E COMPETITIVE
Generalizzando il precedente risultato sulla concorrenza politica, si può concludere che i partiti dovrebbero far di tutto per potenziare la competizione per il potere al loro interno, piuttosto che averne paura come la peste. Per esempio, usando le primarie aperte a tutti gli elettori nella scelta dei candidati a ogni carica istituzionale. Purché, beninteso, si tratti di primarie competitive, non della semplice ratifica plebiscitaria di decisioni prese in altre sedi. In vista delle prossime europee, al di là della legge elettorale che verrà adottata, tutti i partiti potrebbero impegnarsi proprio a scegliere i loro candidati con primarie vere e aperte a tutti i cittadini.

Intendiamoci, le primarie non sono la panacea da tutti i mali: a volte possono essere catturate dall’elettorato “intenso” e più ideologizzato all’interno dei partiti, oppure possono essere distorte a favore di politici in grado di muovere risorse pubbliche per conquistare piccoli pacchetti di consensi. Ma se iniziamo a radicare il loro utilizzo a tutti i livelli, finiremo per aumentare la partecipazione e ridurre le barriere all’entrata costruite dalle oligarchie di partito. Ciò che serve è un impegno credibile a usarle in maniera aperta e continuata.

IL RAPPORTO TRA PARTITI, ECONOMIA E SOCIETÀ
Se vogliamo far funzionare primarie e concorrenza politica, dobbiamo ridurre al minimo le barriere all’entrata. Per esempio, riducendo l’invadenza dei partiti in molti gangli della vita sociale: invadenza che si è ridotta soltanto in dosi omeopatiche con il passaggio alla Seconda Repubblica. Non abbiamo più le partecipazioni statali, ma difficilmente si muove un passo per cordate o acquisizioni senza consultarsi con la classe politica. Al posto delle associazioni collaterali di ogni genere (sportive, culturali, etc.) un tempo di diretta emanazione dei partiti, abbiamo un universo di realtà che sopravvivono solo grazie a qualche relazione politica. Al posto dei partiti degli assessori di nenniana memoria, ci sono i partiti dei “collaboratori”, dirigenti politici a libro paga di cariche istituzionali o enti pubblici. Al posto dell’intervento pubblico diretto, si sono moltiplicate società semi-pubbliche dove il management è frutto di una selezione di stretta indicazione partitica. C’è un sindaco o un presidente di regione che hanno amministrato male ed è meglio tenere lontani da prove elettorali o incarichi esecutivi? Nessun problema: bastano un consiglio di amministrazione o un posto alle europee per risolvere l’inghippo.

UN DIBATTITO POLITICO SGANCIATO DAI CONTENUTI
Un’altra distorsione da rimuovere, per poter utilizzare al meglio lo strumento delle primarie, nasce dal fatto che i partiti hanno smesso di essere un luogo in cui si confrontano (magari aspramente) linee politiche alternative. Il dibattito interno sui contenuti è pressoché inesistente, o comunque del tutto ininfluente nei meccanismi di selezione. Si pensi alle candidature per le ultime elezioni politiche. Si è fatto un gran parlare del candidato X presentato in quanto operaio, del candidato Y perché giovane, o del candidato Z in quanto imprenditore. A nessuno è venuto in mente di giustificare una certa candidatura in quanto espressione coerente di una linea politica. Per ridurre il trasformismo, invece, la battaglia interna ai partiti dovrebbe basarsi su un confronto trasparente tra donne e uomini distinti per linea politica, credibilità e competenza.

(1) Galasso V. e T. Nannicini (2009), The Harsher the Better: Micro Evidence on Political Competition and Political Selection, Università Bocconi, mimeo.

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