Tutti possiamo essere portatori sani di patriarcato, perpetuando norme e identità sociali consolidate. Ognuno di noi, quando definisce sé stesso davanti a uno specchio o decide come comportarsi nel mondo, lo fa prendendo a riferimento elementi collettivi: senso di appartenenza a qualche gruppo (ingroup bias) o di distanza da chi non ne fa parte (outgroup bias), norme sociali, identità sociali. Margaret Thatcher ripeteva provocatoriamente che “la società non esiste”, per polemizzare contro le visioni organicistiche dei rapporti socio-economici. Altrettanto provocatoriamente, si potrebbe sostenere che “l’individuo non esiste”. Per questo non ha senso chiamarsi fuori dalle polemiche contro il patriarcato, come fa Giorgia Meloni, appellandosi ad attributi individuali.
Oggi è la giornata internazionale contro la violenza sulle donne voluta dalle Nazioni Unite. E forse il modo migliore per celebrarla sarebbe quello non solo di denunciare questo abominio, ma di impegnarsi a cancellare i segni indelebili del patriarcato nel nostro stato sociale e nel mondo del lavoro. Faccio un esempio che mi sta a cuore. Secondo l’Istat, le donne lavoratrici contribuiscono al lavoro di cura familiare con 2 ore e 48 minuti in più al giorno rispetto agli uomini lavoratori, un divario che sale a 4 ore e 12 minuti quando ci sono bambini in casa. Nell’arco di un anno, tra le madri e i padri che lavorano, c’è un divario di 64 giorni passati – solo dalle prime – a svolgere lavori di cura tra le mura domestiche. Due mesi. Una madre lavoratrice, rispetto a un padre lavoratore, passa due mesi all’anno in più a prendersi cura della famiglia, mentre lui legge, studia, va in palestra, prende una birra con gli amici, gioca a calcetto col capo da cui dipende la sua promozione. Donna uguale cura: è questa l’equazione – errata – su cui si basa la nostra cultura collettiva. E da questa equazione discendono tutta una serie di scelte individuali, atteggiamenti culturali e strutture di welfare e di organizzazione del lavoro tanto arcaiche quanto patriarcali (si legga Alessandra Minello, “Non è un Paese per madri”, Laterza 2023).
La ricetta per sovvertire lo status quo non può che essere forte. Servono congedi di genitorialità obbligatori paritari: 5 mesi per i padri e 5 mesi per le madri, con le stesse sanzioni se non vengono dati e la stessa copertura retributiva al 100%. Servono congedi parentali facoltativi anch’essi paritari e generosamente retribuiti (almeno all’80%). Serve un part-time di coppia, fortemente incentivato sia per le imprese sia per chi lavora, a patto che sia utilizzato da entrambi i genitori. Serve un’attenzione nuova verso le famiglie monogenitoriali e omogenitoriali. Ma soprattutto serve una diversa organizzazione del lavoro che liberi il tempo delle persone. Per dirla con la Nobel per l’economia Claudia Goldin, la “grande convergenza” tra uomini e donne sul lavoro vivrà il suo capitolo finale quando i datori di lavoro la smetteranno di remunerare eccessivamente gli individui che lavorano tante ore, in certe particolari fasce orarie e con disponibilità senza limiti. Il tempo deve essere valutato (e bilanciato) diversamente per tutte e per tutti (si legga Claudia Goldin, “A Grand Gender Convergence: Its Last Chapter”, American Economic Review 2014).
La rivoluzione contro il patriarcato non può che passare dal tempo, da un uso diverso del tempo. Forse l’aveva capito anche un rivoluzionario come Sant’Agostino quando si chiedeva: “Cosa stava facendo Dio prima di inventare il tempo?” Oggi si fa un gran parlare di settimana corta a parità di stipendio. È una discussione che ha il merito di porre l’accento su come i trend secolari di aumento della produttività e di riduzione dell’orario di lavoro debbano ripartire e andare a favore di tutte e di tutti. Ma in un Paese in cui la produttività stagna da decenni e gli investimenti del Pnrr non si stanno traducendo nel volano di crescita che qualcuno sperava, la discussione rischia di apparire lunare. Peggio, rischia di spiazzare la richiesta di aumenti salariali, che non può che essere la priorità in un Paese in cui i redditi da lavoro sono troppo bassi. Prendete una persona con contratto precario e reddito basso: chiedetele se preferisce lavorare un giorno in meno (a parità di salario) o guadagnare un giorno in più (a parità di ore lavorate). Difficilmente, adesso, opterà per la prima opzione.
Chi ha a cuore il mondo del lavoro dovrebbe diversificare le proprie richieste. Chiedendo alle imprese (e alle pubbliche amministrazioni) di pagare salari più alti ai loro dipendenti. E chiedendo allo Stato un nuovo welfare capace di liberare il tempo delle persone, di redistribuirlo tra chi può e chi non può permetterselo, di garantire a tutte e a tutti un “tempo di base”. Oggi solo i fighetti che fanno certe professioni intellettuali, o che hanno accumulato consistenti risparmi privati, possono permettersi periodi di “sabbatico” in cui dedicarsi allo studio, alla famiglia, al sociale o alla ricerca di sé stessi. Un welfare 4.0 adatto al nuovo millennio dovrebbe porsi il problema di allargare questa opportunità, di redistribuire queste occasioni. È arrivato il tempo di un tempo di base.
Vai al contenuto