In uno stimolante intervento sull’Unità del 17 agosto, Stefano Di Traglia ed Emanuele Piazza invitano il centrosinistra a scommettere sulla “generazione invisibile” di quei 30-35enni che hanno vissuto la propria socializzazione politica negli anni della caduta del muro di Berlino e di Tangentopoli. Richiamo pienamente condivisibile, il loro. Dobbiamo fare in modo, però, che il dibattito che ne è scaturito non dia risalto a un’unica questione: la visibilità di quella generazione all’interno dei gruppi dirigenti del centrosinistra. È un tema che esiste, ma che rappresenta l’epifenomeno di un problema più generale: le nostre difficoltà – vuoi per alcuni retaggi ideologici, vuoi per il peso della rappresentanza di certi interessi – nel dare voce alle domande che molti giovani di quella generazione avvertono come impellenti. Provo a spiegarmi meglio. Ormai, lo dicono tutti: i due poli del malfermo bipolarismo italiano sono divisi da un muro elettorale che appare invalicabile. Se gli elettori di una coalizione si pentono della scelta fatta in precedenza ridistribuiscono i voti all’interno della stessa, o si rifugiano nell’astensione. Si rendono “indisponibili” (come dicono i politologi), ma non saltano il fosso. Questa “indisponibilità” proviene dal lato della domanda o dell’offerta politica? Nel primo caso (un paese ideologicamente spaccato), c’è poco da fare: la ricetta migliore per vincere è quella di galvanizzare la propria base, in modo da trascinarla alle urne. Nel secondo caso (i cittadini si spostano poco perché non trovano offerte credibili in grado di intercettarne bisogni e aspettative), il muro elettorale che separa i poli non deve essere visto come un vincolo, ma come qualcosa da abbattere. Ammesso, s’intende, che la sinistra italiana abbia acquisito quella vocazione maggioritaria propria delle forze socialdemocratiche europee. Secondo un sondaggio di Mannheimer apparso non molto tempo fa sul Corsera, soltanto il 4% dell’elettorato, tra il 2001 e il 2004, ha cambiato coalizione. Ma più del 10% si è detto disponibile a farlo, salvo confermare la propria scelta all’ultimo minuto. Esistono anche in Italia potenziali swing voters (elettori che, spostandosi tra i due poli, ne decretano le fortune). Il problema è che non si muovono per mancanza di un’offerta che sappia convincerli, appena affiora la loro delusione per la scelta precedente. L’indagine di Mannheimer offre un’altra indicazione (e così arriviamo al punto che ci interessa): sono soprattutto i giovani ad essere presenti tra gli swing voters. Nel predisporre il messaggio per il 2006, il centrosinistra dovrebbe cercare di intercettare proprio questi giovani “di confine”, forse meno politicizzati, ma non per questo estranei ai problemi del tempo in cui vivono. Quella italiana è una società bloccata. Dove la probabilità di ereditare impiego e fascia sociale dai genitori è maggiore rispetto agli altri paesi sviluppati. Dove i giovani devono farsi largo in un mercato infestato da rendite e protettorati, che sviliscono il merito e richiedono costi in entrata insopportabili per molti (sotto forma di mancata autonomia, prolungamento della precarietà, assenza di prospettive trasparenti). Dove ci si rende autonomi dalla famiglia, impiantandone una propria, con un ritardo difficilmente imputabile alla sindrome dei “mammoni”, piuttosto che alla mancanza di opportunità e servizi. Come si intende porre rimedio a questi problemi? A più di venti anni da quella “alleanza tra il merito e il bisogno” prospettata dal Psi come orizzonte ideale e programmatico di un moderno riformismo, il problema si propone immutato per la sinistra italiana. Anche le più importanti riforme del centrosinistra negli anni ‘90 – delle pensioni e del lavoro – sono state realizzate grazie al conto salato rimesso a quanti dovevano ancora entrare nel mercato del lavoro. Per un sacrosanto rispetto dei diritti acquisiti e per un meno sacrosanto rispetto delle aspettative acquisite, si è finito per caricare sulle spalle delle generazioni giovani e future tutti i costi della transizione verso un sistema previdenziale sostenibile e un mercato più flessibile e competitivo. Una parte della sinistra ritiene che si debba tornare indietro, liquidando quella stagione come un mero cedimento all’allora imperante liberismo. I riformisti, al contrario, dovrebbero proporsi di completare quelle riforme, salvaguardando le giovani generazioni in questo percorso di completamento. Affrettandosi ad affrontare le vere priorità (ricalibratura del welfare; previdenza complementare; invecchiamento attivo; liberalizzazione delle professioni; formazione permanente). E indicando dove reperire le risorse necessarie per finanziare nuovi interventi. Negli anni ‘90, la “concertazione per il risanamento” è stata efficace perché non ha eluso i costi dell’aggiustamento e si è sforzata di ripartirli in maniera equa. Oggi, si tratta di mettere mano a una “concertazione per lo sviluppo e l’allargamento delle opportunità” (dei giovani in primo luogo), mostrandone con precisione i costi – sotto forma di rendite da rimuovere e risorse da reperire – e tenendo alta la bandiera dei benefici. Limitiamoci a un esempio recente: il dibattito sulle pensioni che ha portato all’ultimo intervento di riforma. Invece di passare per stanco difensore dello status quo, il centrosinistra avrebbe dovuto dire due cose fin dall’inizio: 1) era giusto che l’aumento atteso della spesa previdenziale tra il 2010 e il 2035 – la fantomatica “gobba” – fosse eliminato, per destinare quelle risorse ad altri scopi, come gli ammortizzatori sociali per il lavoro flessibile; 2) neanche un euro dei costi dell’azzeramento di quella gobba avrebbe dovuto essere pagato dalle generazioni che stanno in toto dentro il sistema contributivo. Quelle generazioni, cioè, che sono state chiamate dalla riforma Dini a farsi carico dell’aggiustamento verso l’equilibrio finanziario (poiché i rischi legati a demografia e produttività sono stati trasferiti dalle casse dello Stato sull’ammontare delle future pensioni).
I paladini del motto “vengono prima i programmi” – sbandierato per rallentare la federazione dell’Ulivo – hanno qualcosa da dire a riguardo? In attesa di risposta, non sarebbe male se anche i riformisti cominciassero a dire la loro con maggiore chiarezza e combattività.