Nel mese di novembre, a Doha, nello stato del Qatar, si è svolto l’incontro biennale dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio (o WTO), che nelle speranze di molti potrebbe rappresentare il primo passo verso una nuova stagione di accordi multilaterali, dopo l’Uruguay Round conclusosi nel 1994 con la creazione della stessa WTO. Si trattava di un incontro delicato per ovvie ragioni. In primo luogo, a causa della gravità della congiuntura internazionale scaturita dal crimine contro l’umanità perpetrato l’11 settembre dai terroristi di “Al Qaeda”. Si sta affermando l’idea, infatti, che una risposta efficace al fondamentalismo cammini anche sulle gambe di una nuova strategia di sviluppo per i paesi poveri. In aggiunta, l’incontro di Doha era il primo dopo il clamoroso insuccesso di Seattle nel 1999, dovuto sia alle divisioni tra i partecipanti sia alle proteste esterne del movimento antiglobalizzazione.
La contestazione contro il vertice di Doha non ha assunto le dimensioni viste a Seattle, per la collocazione geografica dell’incontro, ma anche in virtù del fatto che la carica protestataria dell’utopismo antioccidentale era già rivolta contro l’intervento militare degli USA e dei loro alleati in Afghanistan. Rimangono elevate, tuttavia, la protesta politica e la diffidenza popolare verso i processi di globalizzazione. Data per appurata dalla stragrande maggioranza degli economisti e riconosciuta dai policy makers, la capacità di generare benessere della liberalizzazione degli scambi è aspramente contestata da alcuni e accolta con scetticismo dai più. Eppure, uomini politici di successo come Tony Blair e Romano Prodi- solo per citare due esempi- hanno ribadito con chiarezza che, in tema di apertura dei mercati mondiali, il problema non è che c’è troppa globalizzazione, ma che ce n’è troppa poca. Che cosa intendono? E in che modo può essere impostato il dibattito, per avvicinare l’opinione pubblica alle conclusioni della teoria economica? Anche tra quanti si rendono conto dei benefici dell’apertura degli scambi, permane un certo imbarazzo nel contrastare le proteste antiglobalizzazione. Imbarazzo che di solito viene espresso in due modi: (1) affermando che la globalizzazione è comunque un processo inevitabile; (2) riconoscendo come le voci di protesta, sebbene non condivisibili in pieno, puntino l’indice su problemi reali come il divario tra paesi poveri e sviluppati, svolgendo un’opera meritoria di sensibilizzazione. Queste due puntualizzazioni non convincono del tutto, semplicemente perché non è chiara l’analisi della realtà che le sottintende, partendo proprio dal significato attribuito al termine “globalizzazione”. A volte, si ha l’impressione che questa parola venga impiegata genericamente per riferirsi ai “tempi che cambiano”, sollevando il dubbio di come si possa ambire a elaborare risposte politiche efficaci riferendosi a un tema così inafferrabile.
Se ci si riferisce alla globalizzazione culturale, intesa come crescita esponenziale delle possibilità di comunicazione e contaminazione tra aree del globo (fortemente favorita dal progresso tecnologico), è vero che c’è qualcosa di inevitabile in un simile processo. Ma demonizzarlo significa dare credito alle paure verso la diversità e il multiculturalismo, che proliferano sotto la pelle di ogni tessuto sociale. Se ci si riferisce alla globalizzazione economica, intesa come maggiore apertura degli scambi finanziari e materiali, non ne è affatto chiara l’inevitabilità. Esistono molti fattori che spingono verso l’apertura del commercio internazionale, ma niente vieta ai singoli paesi di adottare politiche neoprotezionistiche. La strada dell’autarchia resta nel menù delle scelte possibili. Il punto è che tale strada produrrebbe esiti negativi, sul piano sia dell’efficienza sia dell’equità. La globalizzazione economica è il risultato delle scelte politiche operate da stati sovrani, prima negli accordi GATT e poi in seno alla WTO.
Riguardo alla seconda puntualizzazione, che riconosce alle posizioni antagoniste il merito di richiamare l’attenzione su problemi reali, essa coglie una parte della verità, ma lascia in ombra un aspetto importante: le tesi antiglobalizzazione puntano l’indice sulla causa sbagliata del dramma della povertà. Per spiegare il mancato sviluppo di molti paesi, si deve guardare altrove: alle dinamiche demografiche, alle condizioni climatiche, al regime politico, all’assenza di regole trasparenti, alla scarsa apertura dell’economia, e così via. La liberalizzazione del commercio internazionale è uno dei tanti motori della crescita. Sia l’esempio di singoli paesi sia l’analisi econometrica, evidenziano un effetto
positivo del grado di apertura di un paese sulla crescita economica e sul reddito. Secondo una recente stima di due economisti americani, David Romer e Jeffrey Frankel, un aumento del volume degli scambi pari all’1% ha in media un effetto positivo del 2-3% sul reddito pro capite di una nazione.
Certo, l’apertura dei mercati non risolve da sola la piaga del sottosviluppo, ma da qui ad affermare che ne rappresenti una delle cause ce ne corre. Pensare che il libero funzionamento del mercato su scala globale possa risolvere da solo il problema dei differenziali di crescita e benessere, in un’ottica puramente liberista, è chiaramente legittimo, ma non coglie la complessità dei problemi che ci stanno di fronte. Tra la visione liberista e quella antagonista, esiste uno spazio del quale la sinistra liberalriformista deve tornare ad appropriarsi. Nell’affrontare il tema della povertà su scala globale, la sinistra si trova di fronte a una sfida straordinaria, per certi versi simile a quella affrontata dal movimento socialista a cavallo tra ‘800 e ‘900. Allora, sebbene tra ritardi e contraddizioni, la sinistra ha avviato uno straordinario processo che ha permesso alle società occidentali di risolvere la questione sociale e il dramma della povertà interna. Quel processo si è servito di due leve: una istituzionale (l’allargamento del suffragio universale, che ha permesso la socializzazione delle masse) e una politica (il programma di previdenza e assistenza pubblica, che ha rappresentato il nucleo dello stato sociale nel secolo socialdemocratico).
Anche oggi, nell’affrontare il tema della povertà internazionale, la sinistra dovrebbe dotarsi di due leve. Una leva istituzionale: l’individuazione di nuove forme di governance a livello internazionale, per affrontare i problemi globali con istituzioni globali dotate di regole chiare ed efficienti. E una leva politica: un programma di sviluppo che affianchi all’apertura dei mercati altri obiettivi, come il potenziamento dei diritti politici e civili, l’incremento del capitale umano dei paesi poveri, l’adozione di politiche capaci di attrarre gli investimenti internazionali, il rilancio quantitativo e qualitativo della cooperazione internazionale, la lotta contro il divario tecnologico e la piaga dell’AIDS, il sostegno pubblico a quelle ricerche della biologia molecolare che rispondono alle esigenze dei paesi poveri. Raccogliendo l’insegnamento del premio Nobel per l’economia Amartya Sen, la sinistra liberalriformista dovrebbe porre al centro della propria azione l’espansione delle libertà politiche, economiche e sociali nel mondo. Non solo perché tutte le libertà hanno un valore in sé, ma perché spesso le une si rafforzano con le altre acquistando un valore strumentale. Per esempio, l’espansione dei diritti all’istruzione e alla salute nei paesi in via di sviluppo è un obiettivo che merita di essere perseguito per ragioni di giustizia sociale, ma nello stesso tempo favorisce lo sviluppo, visto che- come sostengono le recenti teorie della crescita endogena- un paese è in grado di trarre vantaggio dall’apertura degli scambi solo se ha superato una dotazione minima di capitale umano. Un approccio di questo tipo potrà essere adottato solo se si sgombererà il campo da un equivoco: la globalizzazione economica non è un nemico da combattere, ma una delle tante frecce nella faretra di una nuova strategia di sviluppo.