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Governo di cittadinanza: chi ci è e chi ci fa

Tommaso Nannicini
Democrazia/#governo

Dal quadro macroeconomico e di finanza pubblica tratteggiato nel primo documento di programmazione del governo Conte (la nota di aggiornamento al Def), si capisce che il governo giallo-verde è attraversato da una profonda linea di frattura. Non la frattura tra Lega e 5 Stelle. E neanche quella tra chi vuole soldi per il disagio sociale piuttosto che per i pensionati del Nord. Una linea di frattura più sotto traccia, ma non per questo meno marcata: quella tra chi c’è e chi ci fa. Da una parte, chi c’è: chi crede davvero che si possano ignorare i vincoli di bilancio imposti dal nostro debito pubblico, scaricare impunemente i costi della spesa corrente sul futuro e rendere tutti più ricchi e felici, perché finalmente decide il popolo e non i mercati. Dall’altra parte, chi ci fa: chi sa che sono solo sparate propagandistiche e mance elettoralistiche, ma vuole creare un “incidente” per motivare il piano di uscire dall’euro. A questo punto, si tratta di capire se chi c’è, di fronte ai vincoli imposti dalla realtà, si sveglierà prima o dopo che chi ci fa abbia portato il Paese nel mezzo di una crisi finanziaria.

Per carità, che le classi dirigenti di Lega e 5 Stelle flirtassero con l’uscita dall’euro era già chiaro in campagna elettorale. Chiedere all’Unione Europea di finanziare le loro irrealistiche promesse elettorali a debito (monetizzandolo), salvo uscire dall’euro per stampare moneta in caso di diniego, è sempre stato il loro unico orizzonte di politica economica. I 5 Stelle chiedevano addirittura di tornare indietro rispetto al divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia del 1981. E a che serve cancellare l’indipendenza della banca centrale se non a permettere alla politica di stampare moneta a proprio piacimento? Naturalmente, questa strategia non vede, o fa finta di non vedere, i costi finanziari e sociali di un’uscita unilaterale dalla moneta unica, che renderebbe carta straccia gran parte dei nostri risparmi e più fragili salari e pensioni, polverizzando tutti i sacrifici che abbiamo fatto attraverso 25 anni di avanzi primari. Ma non solo: questa strategia ignora, o fa finta di ignorare, che se per creare ricchezza e abolire la povertà fosse sufficiente stampare moneta, forse nella storia dell’umanità qualcuno ci sarebbe già riuscito, visto che è passato qualche anno da quando nel VII secolo a.C. il re di Lidia Creso, secondo la tradizione, coniò la prima moneta. D’altronde, i cavilli della storia e della logica non hanno mai tolto il sonno ai rivoluzionari di professione.

Ma torniamo all’oggi. La manovra economica del governo ha quattro caratteristiche che saltano all’occhio. Prima caratteristica. Lo scontro con l’Unione Europea, per la prima volta, non è una conseguenza delle scelte di politica economica ma uno dei suoi obiettivi conclamati. Non si era mai visto un documento ufficiale che rivendicasse una “deviazione significativa” dal sentiero di consolidamento fiscale: sì, usando proprio il termine tecnico che in bruxellese è usato per sanzionare l’indisciplina fiscale. Molti paesi, compresa l’Italia, sono incorsi in passato in procedure d’infrazione o hanno alzato i toni con l’Unione Europea, ma sempre all’interno di un quadro negoziale, per esempio scambiando riforme strutturali in grado di aumentare la crescita potenziale nel lungo periodo con un po’ di flessibilità di bilancio nel breve. Adesso assistiamo a qualcosa di diverso: la ricerca dello scontro per fini propagandistici, o dell’incidente per far saltare la costruzione europea. Difficile, quindi, stupirsi che la prima lettera di risposta ufficiale della Commissione parli di una deviazione “senza precedenti nella storia del Patto di stabilità e crescita” a livello europeo.

Seconda caratteristica. Dal lato delle uscite, la manovra è tutta spostata sulla spesa corrente: niente investimenti, nessuna riduzione delle tasse (al netto di qualche partita di giro dal lato delle imprese e delle partite Iva). E la spesa corrente è tutta spostata su assistenza sociale e prepensionamenti: niente servizi, nessun sostegno a chi lavora, a chi studia, a chi investe. Tutte misure con effetti vicino allo zero sulla crescita, ma una vera bomba a orologeria per la sostenibilità dei nostri conti pubblici nel medio periodo. Difficile, quindi, stupirsi che l’Ufficio parlamentare di bilancio non abbia validato le stime di crescita presentate del governo, basate su moltiplicatori irrealistici vista questa composizione della Legge di bilancio.

Terza caratteristica. Dal lato delle entrate, in attesa dell’agognato ritorno alla lira, si torna all’illusione di creare crescita con la spesa in disavanzo. Non in chiave anti-ciclica come è giusto che sia e come forse si è fatto troppo poco durante la crisi, ma in modalità “manna dal cielo”: mi indebito quanto e come voglio, indipendentemente dall’andamento dell’economia e dalla sostenibilità del debito già accumulato nel passato. Il risultato è quello di trasformare l’Italia nell’elemento di fragilità della zona euro, sotto la costante osservazioni di mercati, agenzie di rating e speculatori. Sì, speculatori: ci sono anche loro, ma il modo per difendersene non è attaccarli su Facebook, quanto piuttosto governare in maniera responsabile mettendo il tuo Paese al riparo da attacchi speculativi. Alla fine questa manovra il “popolo” dovrà pagarla due volte: adesso, sotto forma di spread e tassi di interesse più alti, domani sotto forma di una maggiore tassazione o di un default del debito. Quando, invece, sarebbe bastata un po’ di accortezza in più per continuare a dare ossigeno a famiglie e imprese senza far impennare lo spread e bruciare inutilmente risorse pubbliche.

Quarta caratteristica. Nonostante tutto questo fracasso, i soldi non basteranno lo stesso per fare tutto quello che Lega e 5 Stelle hanno promesso in campagna elettorale e nel programma di coalizione alla base della formazione del governo. Molte scelte sono semplicemente rinviate, come la flat tax (quella vera), la riduzione del cuneo contributivo sul lavoro, il sostegno fiscale alle famiglie con figli a carico, il rilancio degli investimenti pubblici. Tutte cose di cui si continua a parlare nei documenti programmatici del governo, ma senza vederne traccia negli atti normativi. Altre scelte, invece, vengono prese con squilli di tromba ma finanziate con entrate una tantum modello condono (e quindi scaricando il costo delle aspettative create da quelle misure sui conti pubblici dei prossimi anni, vedi la bomba a orologeria di cui sopra). Altre ancora, infine, vengono fatte ma ricorrendo a vecchi trucchi del mestiere per trovare la copertura finanziaria: inserendo paletti o restrizioni che riducono la platea dei potenziali beneficiari; facendo il gioco delle tre carte con risorse di politiche messe a bilancio dai governi precedenti ma non ancora attuate, oppure di politiche i cui beneficiari sono meno “rumorosi” dei nuovi che si vuole avvantaggiare.

In tema di previdenza, la manovra aumenta la flessibilità in uscita introducendo una variante della cosiddetta “quota 100” (permettendo cioè di andare in pensione anticipata a chi ha almeno 62 anni di età e almeno 38 anni di contributi), ma per far quadrare i conti dovrà introdurre restrizioni o decurtazioni della pensione futura per chi sceglierà questa opzione. Non si prende nessun impegno per l’adeguatezza delle pensioni dei giovani nel contributivo pieno, soprattutto per quelli con redditi bassi e carriere lavorative discontinue. Anzi, s’innesca un’ulteriore bomba a orologeria sulla sostenibilità del sistema previdenziale e quindi proprio delle pensioni di quei giovani. E si rischia di lasciare senza risposta quelle persone che oggi traggono un reddito dall’Ape sociale e dagli interventi sui lavoratori precoci o sui lavori usuranti, anche con requisiti contributivi più bassi rispetto a “quota 100”, perché disoccupati, disabili, familiari di disabili o lavoratori in occupazioni gravose.

Il cosiddetto “reddito di cittadinanza” resta un ircocervo privo di dettagli attuativi e non scevro di punti interrogativi preoccupanti. Si continua a confondere la funzione di assicurazione contro il rischio disoccupazione e la funzione di attivazione sociale per contrastare la povertà. In tutti i sistemi maturi di welfare, a queste due funzioni si risponde con strumenti diversi. Questa confusione crea incertezza sull’accesso agli strumenti esistenti per la tutela contro la disoccupazione come la Naspi (non capendo se verranno anch’essi sottoposti alla prova dei mezzi), incertezza sulla sorte degli strumenti esistenti di attivazione sociale come il Reddito di inclusione, e incertezza sulla destinazione futura delle risorse strutturali con cui sono attualmente finanziati.

Alla riforma dei centri pubblici per l’impiego vengono addirittura assegnate virtù taumaturgiche, dal sostegno dell’occupazione giovanile al sostegno di quella femminile, dai controlli su eventuali “trappole della povertà” innescate dalle nuove misure di inclusione sociale all’accompagnamento nei percorsi di formazione. Tutto questo senza un disegno coerente di riforma che parta da funzioni e strumenti, piuttosto che da nuove assunzioni pubbliche, e senza una strategia che includa un ripensamento delle competenze tra Stato e regioni in materia di politiche del lavoro.

In sintesi: le preoccupazioni che suscita questa manovra non sono tanto legate al 2,4 percento di deficit nominale, quanto piuttosto alla tempistica, alla composizione e al modo con cui si fa quel deficit. Proprio chi ha a cuore le politiche anti-cicliche o la spesa pubblica a fini redistributivi dovrebbe salvaguardare i conti pubblici in tempi non di crisi: perché entrambe le opzioni sono ostacolate da un debito elevato e da un’alta spesa per interessi. Le logiche politiche sottostanti alla spesa in disavanzo sono studiate da tempo dagli economisti: per esempio, Persson e Svensson, in un celebre modello sul Quarterly Journal of Economics, sviluppano l’idea che i governi conservatori fanno più debito per legare le mani ai futuri governi progressisti. Qui siamo di fronte a un governo di populisti che sfascia tutto per obbligare i governi futuri a politiche fortemente restrittive, contro le quali fare un’opposizione feroce per tornare al potere? Se fosse così, le scelte di politica economica che stiamo osservando avrebbero almeno un senso. Altrimenti sarebbe difficile trovargliene uno.

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