Sul Foglio del 15 maggio Giuliano Cazzola ha ricostruito, con la sua consueta verve, il cammino parallelo del disegno di legge sul salario minimo presentato dalla Presidente della Commissione lavoro del Senato Nunzia Catalfo (M5S) e del disegno di legge su rappresentanza sindacale, giusta retribuzione e salario minimo di garanzia presentato dal Pd a prima firma di uno di noi (Nannicini). I due disegni di legge vengono rappresentati come variazioni armoniche sul medesimo tema. Cazzola legge in controluce il filo conduttore che legherebbe entrambe le proposte: restaurare ope legis il piccolo mondo antico delle parti sociali tradizionali, quello che gli aveva garantito per decenni il monopolio della rappresentanza. La lettura è politicamente suggestiva, ma non coglie le profonde differenze tra i due testi e, conseguentemente, le loro diverse ricadute politiche ed economiche. In verità, lo stesso Cazzola riconosce che una qualche differenza esiste, seppur sottile secondo la sua lettura. E, allora, proviamo a spiegare le differenze di metodo e di contenuto, dalle quali emerge un disegno radicalmente diverso.
Nella proposta Catalfo tutto ruota attorno a un numero, imposto per legge. È il numero che esprime la retribuzione oraria minima da riconoscere a qualunque lavoratore che presti la sua opera sul suolo patrio. È un numero magico e universale, quello che garantisce la dignità del lavoro, anche il più umile, e che, perciò, dovrà necessariamente essere posizionato molto in basso per non tagliare fuori nessuno. Tanto che, in quel disegno di legge, neppure i contratti collettivi potranno scendere sotto quella soglia fissata per legge. Anzi, proprio per i contratti collettivi quel numero diventerà il riferimento fondamentale, il punto di partenza implicito di ogni trattativa. Anche le norme sulla rappresentanza sindacale finiscono per ruotare attorno al salario minimo, in particolare quelle che dicono di voler assegnare efficacia erga omnes ai contratti collettivi (anche se di fatto non lo fanno per tutta una serie di limiti tecnici sui quali non ci soffermiamo). Per le associazioni datoriali tradizionali ogni centesimo in più rispetto a quel numero sarà un centesimo da far pagare a ogni singola impresa del Paese, con il rischio di incentivare molte imprese a fuggire dai contratti collettivi o a spostarsi su nuovi soggetti di rappresentanza che, forti del minimo legale, prometteranno minore generosità al tavolo delle trattative. Insomma, più che un piccolo mondo antico sembra prospettarsi un ridimensionamento della libertà sindacale e un livellamento verso il basso della contrattazione collettiva. Più che un salario minimo per alcuni lavoratori deboli, rischiamo di ritrovarci con salari al minimo per tutti i lavoratori. Il perché è semplice: con la fuga dai contratti collettivi avremo salari più bassi e meno tutele contrattuali. Anche questo un mondo antico, anzi antichissimo, precedente al formarsi dei moderni sistemi di relazioni industriali (che casomai vanno rinnovati, non rottamati).
E ora veniamo al disegno di legge Nannicini. Come ricorda Cazzola, esso si occupa di salario minimo solo residualmente, per i settori privi di copertura contrattuale. Dunque non mette il salario minimo in competizione con i contratti collettivi, lasciando le parti sociali libere da ogni condizionamento esterno rispetto al contenuto economico. Il cuore della proposta è altrove. L’obiettivo è garantire una giusta retribuzione in ragione della specificità di ogni lavoro, che è cosa ben diversa dal fissare una soglia minima di pochi euro, maledetti e uguali per tutti. Perché non si può dimenticare che l’articolo 36 della Costituzione non si limita a prevedere una retribuzione minima dignitosa, ma pretende anche che il lavoro sia pagato per il valore che realizza, sia per quantità che per qualità. In questa proposta, si riconosce che solo il contratto collettivo può stabilire quale sia il valore del lavoro in tutte le sue componenti, anche quelle accessorie. L’efficacia erga omnes dei contratti collettivi va di pari passo con la piena libertà e autonomia delle parti sociali, perché le regole della rappresentanza qui sono il frutto di un accordo condiviso tra tutti i soggetti che rappresentano i diversi mondi e le diverse dimensioni dell’impresa e del lavoro. Poi si riconosce che il salario minimo serve solo dove c’è una falla nella contrattazione collettiva e, conseguentemente, si stimolano le parti a colmare quella falla. Si riconosce, in sintesi, che il ruolo delle imprese e dei sindacati è promuovere la produttività per far crescere la ricchezza del Paese.
Una parte importante del disegno di legge Nannicini (non a caso quella che piace meno ai sindacati) è che ci sia una sede istituzionale apposita, dove siedano in maniera paritetica le organizzazioni che rappresentano i lavoratori e i datori di lavoro, per scrivere una volta per tutte le regole sulla rappresentanza. Se quanto viene stabilito dai contratti collettivi deve valere per tutti, è importante che le regole che stabiliscono chi può firmare questi contratti siano chiare e generali. E che stiano in un atto normativo. Si tratta di una sfida in positivo anche verso le parti sociali, affinché facciano un salto di qualità nello scrivere tutte insieme, nella loro autonomia, le regole del nostro sistema di relazioni industriali. Non con accordi a menù, ma in una sede istituzionale unica che dia legittimità e certezza a quelle regole. È attraverso la modernizzazione delle relazioni industriali che si può guardare con ragionevole fiducia al futuro, non certo aggrappandosi a un numero magico, per di più fissato per legge a seconda della tornata elettorale (o del tweet) del momento.