L’aggiustamento fiscale realizzato dal governo e il sostegno della Bce ai nostri titoli di stato hanno allontanato lo spettro di un attacco speculativo su larga scala al debito pubblico italiano. E questo nonostante la manovra contenga interventi che probabilmente non saranno mai attuati (qualcuno pensa che questa classe politica sia in grado di portare a fondo le annunciate abolizioni di enti territoriali?) e misure più eque siano state affondate dai veti incrociati di partiti e interessi organizzati (leggi: pensioni d’anzianità e Iva). Ma quanto dovremo aspettare prima che si scateni una nuova tempesta?
Volendo dare credito alle dichiarazioni di soltanto poche settimane fa, all’inizio della bufera estiva sui mercati finanziari, non dovremmo preoccuparci più di tanto. Secondo il premier Silvio Berlusconi, l’Italia è un “paese solido”. Secondo i rappresentanti delle parti sociali, “il mercato non sembra riconoscere la solidità dei fondamentali dell’Italia”. Secondo letture meno sofisticate, tutti i nostri grattacapi provengono dalla furia distruttiva degli speculatori internazionali.
È davvero così? Di quali “fondamentali” stiamo parlando? Per carità, può darsi che nel breve periodo i nostri titoli abbiano problemi di liquidità piuttosto che di solvibilità, a fronte di ricorrenti crisi di fiducia e attacchi speculativi. Ma è altrettanto vero che la sostenibilità di lungo periodo del nostro debito pubblico dipende da un unico fattore: la crescita economica. Solo se torneremo a crescere, il debito smetterà di essere una zavorra capace di portarci a fondo. O qualcuno pensa che gli speculatori lancino una monetina prima di decidere se attaccare l’Italia piuttosto che la Danimarca?
Per il momento, una serie di misure che avremmo dovuto adottare da tempo – come l’anticipo del pareggio di bilancio o liberalizzazioni volte a rimettere in moto un’economia impigrita – ci vengono imposte dai mercati (ammesso che, come detto, non siano di nuovo riposte nel cassetto qualora la tempesta si plachi, magari grazie a una politica monetaria della Bce leggermente più espansiva). Secondo l’esponente del Pdl Maurizio Lupi, la manovra del governo serve per garantire il benessere dei suoi tre figli e di tutte le future generazioni. Nella sostanza, può darsi che abbia ragione. Peccato, però, che l’onorevole Lupi e il governo che sostiene abbiano dovuto aspettare una crisi finanziaria per ricordarsi dei suoi tre figli. Non sarebbe il caso di ringraziare gli speculatori se noi italiani cominciamo a svegliarci?
Quello a cui assistiamo è il fallimento di un’intera classe dirigente, non solo politica. Ognuno si rinchiude nella difesa di rendite non più sostenibili e officia riti privi di significato. E i mercati non sono stupidi: se ne accorgono e ci pensano due volte prima di prestarci i loro soldi. Sulla scena politica, si fronteggiano una maggioranza che ripropone le ricette degli ultimi 17 anni e un’opposizione che rispolvera le ricette del secolo scorso. Le parti sociali cavalcano parole d’ordine stantie come i “patti” o i “tavoli”, in un gioco degli specchi per cui le riforme, come le discariche, sono necessarie, ma sempre da un’altra parte. Sperando che, qualora non sia più possibile scaricare il costo delle mancate riforme sulle generazioni future, questa volta siano gli impiegati tedeschi a tirarci fuori dalle secche in cui ci siamo infilati, per la nostra incapacità di cambiare un modello di sviluppo e d’intervento pubblico che non è più né sostenibile né equo.
Vogliamo mandare un messaggio di credibilità ai mercati? Ognuno dica, kennedianamente, che cosa intende fare per il proprio paese. A cominciare, certo, dalla classe politica, ma senza fermarsi lì. Perché esiste il teatrino della politica e su questo non ci piove. Ma esistono anche il teatrino delle parti sociali, il teatrino dell’antipolitica, il teatrino degli editoriali, il teatrino delle chiacchiere da bar, e chi più ne ha più ne metta. E non è con qualche colpo di teatro che usciremo da due decenni di stagnazione.
La politica dovrebbe ridurre la propria invadenza (senza altri annunci e andando oltre le misure della manovra): diminuzione del numero dei parlamentari; controlli a tutti i livelli sulle spese per collaboratori, sedi di rappresentanza e affini; liberalizzazione dei servizi pubblici locali; commissione indipendente che valuti costi e benefici di enti e istituzioni sotto il controllo della politica e degli interessi organizzati (per esempio, le camere di commercio sono davvero utili?); obbligo, per ogni 100 euro di spesa pubblica, di investire almeno 5 euro per valutarne gli effetti in maniera scientificamente rigorosa. I sindacati, da parte loro, smettano di dire che le pensioni non si toccano, fingendo di non vedere che per intere generazioni (a causa della spesa allegra che ha finanziato le pensioni e il risparmio privato delle generazioni precedenti) la pensione è un lusso che non potranno permettersi, per il combinato disposto del metodo contributivo e della flessibilità in entrata nel mercato del lavoro.
Confindustria e le altre organizzazioni datoriali propongano l’abolizione degli aiuti alle imprese, soprattutto quelli che si nutrono di canali discrezionali, oltre a misure concrete per ridurre i margini di elusione fiscale delle grandi imprese e per aprire i mercati di beni e servizi. L’Abi dica chiaramente che il settore bancario ha bisogno di dosi massicce di concorrenza e apertura verso l’estero, e che le Fondazioni bancarie sono pronte ad allocare le loro risorse per ricerca, cultura e sviluppo in maniera aperta e meritocratica (e non secondo criteri di influenza politica come avviene adesso). I grandi quotidiani ospitino editoriali in cui si propone l’abolizione dell’ordine dei giornalisti, la fine di qualsiasi sovvenzione (diretta o indiretta) all’editoria e la completa trasparenza su intrecci proprietari e pubblicitari tra giornali, aziende e politica. I frequentatori assidui dei bar della penisola (o dei social media) ammettano, specie se hanno più di 45 anni, che parte del loro benessere si è cibato dei problemi che oggi assillano le nuove generazioni di lavoratori e imprenditori.
Ecco cosa potrebbe ridarci credibilità agli occhi di chi pensa che noi italiani siamo troppo innamorati dei nostri vizi per cambiare davvero. Certo, il bandolo della matassa è nelle mani della politica. Non saranno misure d’emergenza o governi tecnici a salvarci: serve una nuova stagione politica che ci accompagni fuori dalle secche della stagnazione. Come? Chiedendo a tutti gli italiani di fare la loro parte e puntando su una classe politica che sia credibile nell’avanzare una tale richiesta.
Vai al contenuto