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I primi risultati del Jobs Act

Tommaso Nannicini, Marco Leonardi
Lavoro/#jobs act

Ieri l’INPS ha pubblicato i dati di dicembre sulle assunzioni. È una data importante perché quei numeri certificano la fine del primo anno di Jobs Act e permettono di fare un primo bilancio, seppur parziale. L’obiettivo principale della riforma era quello di cambiare la composizione del lavoro, dando prevalenza al contratto a tempo indeterminato, e di mettere fine all’ambiguità di finte partite IVA e co.co.pro. Con le riforme del mercato del lavoro non si crea magicamente occupazione, ma si può condizionarne la qualità e fare in modo che le regole del gioco facilitino anziché scoraggiare la ripresa occupazionale appena l’economia riparte. Entrambi gli obiettivi sono stati raggiunti.

In questo primo anno, una grossa quantità di contratti a termine è stata trasformata in contratti a tempo indeterminato: il numero di 764.000 assunzioni a tempo indeterminato in più rispetto al 2014 include ben 578.000 trasformazioni da contratti a termine e da apprendistato. I critici del Jobs Act spesso non considerano le trasformazioni, ma si limitano a contare le nuove assunzioni, come se la trasformazione di un contratto temporaneo o co.co. pro non fosse importante di per sé. Lo dovrebbero però spiegare ai giovani che ieri non avevano ferie e malattia, né la possibilità di accendere un mutuo o un salario come da contratto nazionale, e che oggi invece hanno tutti i diritti di un lavoratore a tempo indeterminato, tranne la reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento che è stata sostituita da un’indennità monetaria.

Il superamento dell’articolo 18 spiega l’aumento dell’occupazione a tempo indeterminato, o è tutto dovuto all’esenzione contributiva prevista per i contratti firmati nel 2015? Ci sono almeno tre fenomeni che fanno pensare che il cambiamento normativo abbia avuto un ruolo importante. Le assunzioni hanno avuto un picco a dicembre per approfittare degli ultimi mesi di decontribuzione totale, ma è anche vero che hanno avuto un picco dopo marzo: le imprese hanno aspettato il nuovo contratto a tutele crescenti prima di assumere. In secondo luogo, solo il 61% delle nuove assunzioni e trasformazioni ha goduto della decontribuzione, il che significa che molti hanno assunto a tempo indeterminato anche senza godere degli sgravi.

Infine, anche le trasformazioni di apprendisti in tempi indeterminati sono aumentate molto nel 2015 rispetto agli anni precedenti (+23%). Dato che le trasformazioni di apprendisti non godono degli sgravi, la ragione per trasformarli è probabilmente legata alla semplificazione normativa introdotta dal Jobs Act. Ma le risorse destinate all’esonero contributivo per il tempo indeterminato sono state ben spese? Il preventivo di costo è 11,8 miliardi su 3 anni. Quest’anno le assunzioni a tempo indeterminato che hanno goduto degli incentivi sono state 1,4 milioni rispetto al milione preventivato. Una buona notizia, anche se la misura potrebbe finire per costare un po’ di più del previsto. Se e quanto di più è presto per dirlo però, visto che si deve tenere conto delle retribuzioni medie di chi ha avuto l’esonero e del fatto che circa il 10-15% dei contratti con esonero cessa fisiologicamente nel corso dei tre anni. Ogni contratto incentivato costa all’erario poco meno di 10.000 euro su tre anni. Se sia tanto o poco sarà materia del contendere per gli anni a venire, ma è la politica a stabilire le priorità di spesa. Ridurre il precariato e cambiare la composizione dei contratti a favore del tempo indeterminato è una promessa che è stata mantenuta. Adesso il prossimo passo dovrebbe essere quello di rendere il tempo indeterminato strutturalmente meno costoso del tempo determinato anche allo scadere degli incentivi.