“Le misure non cambieranno, sono eque. Spenderemo 7 miliardi per andare incontro a chi ha subito i costi più duri delle passate riforme”
Sottosegretario Tommaso Nannicini, come commenta la lettera che vi è stata inviata dall’UE?
“La lettera non deve preoccupare, fa parte di un’interlocuzione normale con l’Unione europea. La manovra non cambia. Coniuga bene equità e crescita ed è quello di cui il Paese ha bisogno. Il percorso di consolidamento dei conti pubblici continua. Lo fa solo più lentamente del previsto, perché la ripresa è fragile e ci sono ancora riforme strutturali da accompagnare”.
La manovra è in larga parte finanziata con nuovo deficit. Non trova questo penalizzi soprattutto i giovani, che si ritroveranno con un debito pubblico ancora più alto?
“Ho una visione leggermente diversa. Il vero modo in cui si penalizzano i giovani è non mettendo le basi per la crescita nel futuro. E’ vero, la reputazione dell’Italietta con la spesa facile ce la siamo fatti. Ma se noi continuiamo con l’idea che la nostra ossessione è l’aggiustamento fiscale e che la crescita è solo un vincolo di cui tenere conto alla fine non otteniamo né l’uno né l’altro, perché il Paese non cresce, non crea opportunità per i giovani e lascia loro un debito sempre più insostenibile”.
Tra anticipo pensionistico e estensione della quattordicesima, la vostra manovra sembra fatta apposta per conquistare il sostegno dei più anziani al prossimo referendum.
“Accusare un politico di cercare voti è come accusare l’AVIS di raccogliere sangue. Ma al di là di questo se dovessi guardare in quella chiave di “economia politica”, non dovevamo mettere due miliardi e mezzo l’anno sui pensionati, ma 20. Abbiamo fatto interventi circoscritti su platee in condizione di bisogno che hanno anche meno rappresentanza. Poi ci sono molti interventi che non hanno una constituency elettorale, ma solo un’ossessione, quella di creare più opportunità di crescita: ecco gli interventi su crescita, capitale umano, che non sono pensati per accontentare un gruppo elettorale, ma per dare più opportunità a tutti”.
Perché l’Italia spende altri sette miliardi in tre anni a beneficio di pensionati e pensionandi? E’ davvero una priorità?
“Perché li ha giustamente risparmiati con una serie di interventi che hanno messo in sicurezza la sostenibilità finanziaria del nostro sistema. Secondo la Corte dei Conti gli interventi degli ultimi dieci anni hanno dato un risparmio di 32 miliardi l’anno. Spenderne due all’anno per dare delle risposte a chi ha subito, dal punto di vista sociale, i costi più duri di quell’aggiustamento non vuol dire tornare indietro, vuol dire coniugare sostenibilità finanziaria con equità sociale”.
Il problema però è che partiamo da una situazione estremamente squilibrata. La spesa di welfare italiana va soprattutto a vantaggio dei pensionati. Non trova che ci sia da fare ancora di più per riequilibrarla?
“Io francamente non lo credo. Quando ho iniziato a fare politica, negli anni ’90, i governi decisero di salvare intere coorti dall’aggiustamento strutturale, scaricando i costi solo sulle generazioni future. A quel punto, era questa la battaglia da fare, ma, purtroppo, i buoi sono scappati. La riforma del 1995 e le accelerazioni successive hanno messo in sostenibilità il sistema. Il nostro debito implicito previdenziale, anche con la demografia terribile che ci ritroviamo, è molto basso. Non dico che dobbiamo tornare indietro, dico soltanto che la vera battaglia di equità generazionale non è tagliare le pensioni, ma capire come si trovano le risorse per garantire l’adeguatezza delle pensioni future”.
Nel vostro accordo coi sindacati si parla della necessità di garantire l’adeguatezza delle pensioni dei giovani. Ma si tratta di una discussione rimandata al futuro, mentre gli interventi a favore di pensionati e pensionandi sono immediati.
“Non c’è concretezza perché un intervento deve avere i suoi gradi di maturazione, tecnico e politico. Adesso, davanti alle strette di questi dieci anni, c’erano altre emergenze a cui dare subito un segnale di equità sociale. Quelle strette hanno creato una forte domanda di flessibilità in uscita e di sostegno ai redditi accessori a cui noi andiamo incontro con molta accortezza dal lato della sostenibilità finanziaria: in molti sono scontenti non perché spendiamo 2 miliardi e mezzo l’anno, ma perché ne spendiamo troppo pochi.
L’altra parte di quel verbale con i sindacati, più innovativa, non è rinviata alle calende greche: vuol dire che subito dobbiamo aprire un dibattito perché non si tratta solo di rispondere ad alcune domande di equità sociale, ma di ridisegnare il contributivo per garantire l’adeguatezza delle pensioni dei giovani”.
Perché lei parla di emergenza sociale tra i pensionati? I dati sulla povertà fanno vedere come l’indigenza aumenta molto di più fra i giovani adulti che fra i più anziani.
“Quando si parla di equità sociale non si parla solo di lotta alla povertà assoluta. Ricordiamoci che questo è il governo che fra la scorsa legge di stabilità e questa legge di bilancio ha creato per la prima volta uno strumento unico di lotta alla povertà assoluta, che avrà un miliardo e mezzo di risorse in più. Per tanti anni si è parlato di lotta alla povertà, lasciando soli il terzo settore e le associazioni. Adesso lo Stato non solo ci mette una cornice, il “reddito di inclusione”, che vuole essere la porta di accesso alle misure di contrasto alla povertà, ma ci mette un miliardo e mezzo di risorse, togliendoci dall’angolino in cui eravamo finiti insieme alla Grecia, dei due Paesi che non avevano una misura unica e forte di contrasto alla povertà. Partiamo in via priorità dalle famiglie con minori a carico che difficilmente sono pensionati, proprio per dare un segnale che chi è in condizione di bisogno avrà delle risposte forti.
Quelle sono misure assistenziali, però l’equità sociale non si fa solo a colpi di lotta alla povertà assoluta. Ci sono domande di equità sociale che non hanno solo a che fare con la povertà, ma con l’equa distribuzione dei redditi, per andare incontro a delle legittime domande di flessibilità e di scelte del cittadino. Un usurante che a 63 anni lavora in un’acciaieria non è necessariamente un povero. Però non vedo perché la politica non debba andare incontro alla sua domanda di non stare in un’acciaieria a 63 anni”.
Con il Jobs Act avete impegnato molte risorse per dare degli sgravi fiscali ai neo-assunti, favorendo soprattutto una certa classe d’età. Oggi quella misura viene ridotta moltissimo e allo stesso tempo si mettono soldi per i più anziani.
“Intanto segnalo una cosa: quando un governo deve avere una visione di insieme, non ci si può innamorare di un’idea. Non ci si può svegliare una mattina e dire che ci sono solo i giovani o ci sono solo i pensionati. Da quel punto di vista ci sono stati degli investimenti forti, per dare una spinta alle assunzioni a tempo indeterminato e togliere dalla paura del precariato una generazione. Il Jobs Act non è fatto soltanto di incentivi. E’ rimettere il tempo indeterminato al centro del mercato del lavoro, è la stretta sulle partite IVA, sui Co.Co.Pro. E’ una battaglia per dare stabilità e certezze di prospettiva ai giovani che entrano nel mercato del lavoro. Chi entra con un contratto a tempo indeterminato può fare un mutuo, ha delle tutele che prima non aveva, ha un orizzonte di programmazione individuale e di coppia diverse rispetto a chi non ce l’ha. Quella misura resta un cardine della politica economica di questo governo e delle riforme strutturali che ha fatto, Proprio perché c’è quella, un governo che guarda alla società a 360 gradi non si preoccupa di dare delle risposte anche a chi ha qualche anno in più.
Abbiamo sempre detto che l’esonero contributivo era una misura congiunturale: non puoi tagliare il 100% della contribuzione a carico del datore di lavoro per sempre. Questo non perché non ci siano i soldi, ma perché questo andrebbe a detrimento dei giovani lavoratori stessi: laddove una fascia di giovani lavoratori ha un capitale umano più basso, è chiaro che questi sgravi per i primi tre anni di assunzione creano un incentivo perverso a cambiare forza lavoro ogni tre anni. Faremmo rientrare dalla finestra il precariato che abbiamo scacciato dalla porta col Jobs Act se pensassimo di rendere strutturale per i neoassunti questo sgravio. Dobbiamo fare due cose: la prima è rendere gli sgravi strutturali, ma solo per l’inizio, per favorire l’inserimento nel mondo del lavoro di giovani che vengono da un percorso di formazione. Questa legge di bilancio lo fa mettendo degli sgravi fiscali forti, pari a quello del primo Jobs Act, per le aziende che assumono giovani che vengono da percorsi di formazione scuola/lavoro. E’ una “win win solution”: per i giovani che si formano e hanno più opportunità di trovare lavoro, e per le aziende che riducono i costi se investono in formazione”.
Per l’anno prossimo, si può davvero immaginare un taglio strutturale del cuneo contributivo finanziato con la tassazione generale? Le risorse sono scarse e il Presidente del Consiglio ha già detto che lui ha in mente un taglio dell’IRPEF.
“Ci sono due temi. Il primo è che è chiaro che se anche non lo fiscalizzi, il taglio del cuneo ha un costo di cassa: risparmi in futuro, ma devi pagarlo subito all’INPS. Dunque il tema delle risorse c’è sia che lo fiscalizzi, che se non lo fiscalizzi. In secondo luogo, quando si dice che si può fiscalizzare tutto il taglio del cuneo contributivo, lo si può dire solo se si ha in mente un taglio molto piccolo. In nessun Paese un pezzo importante del risparmio previdenziale è a carico della fiscalità generale. Le pensioni, anche del primo pilastro, le finanzi con contributi, non con le tasse di tutti. Qual è allora il tema? E’ più ampio e va posto, da una parte ponendoci il problema del costo del lavoro per le imprese e dall’altro alle pensioni dei giovani. Ma dovremo guardare anche alla sostenibilità delle loro pensioni. Come lo facciamo? Lo facciamo facendo di tutto con la leva fiscale per rafforzare il secondo pilastro e la previdenza complementare, sapendo che questo va a vantaggio soprattutto dei redditi medio-alti. E introducendo nel sistema contributivo una forma di garanzia, con una pensione contributiva di garanzia, che sia legata anch’essa a quanto hai lavorato e a che età esci, ma che garantisca uno zoccolo minimo che dà delle garanzie a quelle carriere discontinue e a quei redditi bassi di avere una pensione degna di questo nome. E questo ha senso metterlo a carico della fiscalità generale. Questo è un intervento perequativo che vuole aiutare le pensioni medio-basse dei giovani di oggi che non devono rischiare di diventare i poveri di domani”.
Lei annovera il Jobs Act tra i successi del governo, ma gli ultimi dati sul mercato del lavoro sembrano suggerire che la ragione dietro il boom di assunzioni degli scorsi mesi sia stata la decontribuzione.
“Purtroppo questi numeri non possono distinguere i due effetti del Jobs Act dall’esonero contributivo. Se guardiamo tutto il periodo gennaio 2015-agosto 2016 rispetto a gennaio 2013-agosto 2014 – al netto della ripresa del ciclo – è chiaro che le assunzioni a tempo indeterminato hanno avuto un boom: è come il risultato di una partita Real Madrid-Montevarchi. Che cosa all’interno di questo pacchetto di interventi abbia funzionato di più, francamente è difficile dirlo, anche perché gli interventi sono stati pensati insieme. Dire che adesso c’è un rallentamento francamente vuol dire poco. L’incentivo congiunturale ha avuto un forte effetto di anticipazione: c’è stato all’interno del periodo Jobs Act una traslazione temporale che ci vuole tempo per riassorbire e che dobbiamo valutare. C’è anche una questione di ciclo delle aspettative più favorevole nel 2015 che nel 2016. Dire solo che il confronto tra il 2015 e il 2016 dimostra che l’esonero funzionava e il Jobs Act no, secondo me non tiene conto che proprio perché quell’esonero era una misura temporanea, congiunturale, ha spostato le decisioni nel tempo, ma non le ha modificate. Devo guardare tutto il pacchetto “Jobs Act più esonero” contro un mondo in cui non c’era niente. Lì francamente si vede che il tempo indeterminato è rientrato al centro dei flussi di assunzione. Se uno dice: questo è sostenibile nei prossimi anni anche senza esonero contributivo ma con un taglio strutturale più contenuto? Io penso di sì, perché c’è una riforma strutturale che sta cambiando la mentalità delle imprese anche riguardo al tempo indeterminato e c’è la sfida del taglio strutturale del cuneo contributivo che deve rendere i contratti stabili meno costosi degli altri”.
Il Jobs Act metteva tanti soldi con una finalità precisa. Non c’è un rischio che qui disperdiate le risorse in mille rivoli e che non raggiungiate nessuno degli obbiettivi che vi siete preposti?
“Io adoro le campagne elettorali, perché se fai qualcosa stai dando mance per vincere le elezioni, se non fai niente sei un governo che si disinteressa dei problemi del Paese. Questi non sono interventi micro-categoriali ma pezzi di un puzzle che manovra dopo manovra costruisce il suo disegno. In questa legge di bilancio ci sono tre grossi pezzi: quello di riduzione del carico fiscale per le imprese, quello delle risposte a pensionati e famiglie in posizioni di povertà e quello degli investimenti sul capitale umano. Su quest’ultimo punto, c’è un intervento importante sul diritto allo studio, perché i capaci e meritevoli possano arrivare ai livelli più alti: si parla della “no tax area” per chi ha ISEE bassi e di un programma sperimentale per studenti molto meritevoli, con talenti particolari, selezionati dalle scuole, che vengano da famiglie in condizioni economiche di bisogno ai quali viene dato un aiuto forte. Non solo tasse gratis, ma anche vitto alloggio, attività di tutoraggio, per fare in modo che la barriera del costo opportunità degli studi, ovvero il non poter andare a lavorare, sia rimossa. C’è anche un investimento forte su chi fa ricerca nelle università, con oltre 250 milioni nel fondo ordinario, l’investimento più importante degli ultimi anni, dato con meccanismi premiali per cui gli atenei possano investire subito risorse per l’assunzione dei giovani ricercatori, differenziarsi e investire nei dipartimenti secondo le valutazioni esistenti. Ci sono fondi individuali che possono sembrare l’ennesimo bonus, ma che sono lo standard in tutte le università di eccellenza internazionali: se sei giovane, fai ricerca, hai i tuoi fondi individuali, un gruzzoletto di 3000 euro che puoi spendere per comprare un software, presentare il tuo lavoro in un convegno internazionale senza dover chiedere a qualcuno di pagarti il biglietto. Fondi da gestire in maniera autonoma che andranno alla stragrande maggioranza dei ricercatori”.
Lei ha giocato un ruolo di primo piano nella creazione delle cattedre Natta, per cui è stato evocato lo spettro del Fascismo.
“Questo non è un commissariamento dell’Università o un programma di reclutamento parallelo. E’ solo un programma sperimentale di premio al merito che vuole regolare un po’ meglio il meccanismo delle chiamate dirette. Il governo dice che c’è un programma che vuole aprire il nostro sistema universitario a eccellenze internazionali, per cui 500 professori associati e ordinari che hanno livelli di produzione scientifica ai migliori standard internazionali avranno un fondo che si farà carico del loro stipendio e potranno muoversi liberamente nel sistema italiano. Queste sono chiamate dirette, dunque toccherà all’università chiedere chi e se chiamare. Nessuno commissaria nessuno, sono le università che decidono se chiamare questi 500 oppure no. Come scegliere questi 500? Si fa molta polemica in questi giorni sull’atto amministrativo con cui saranno scelte le commissioni, francamente in tutti i Paesi normali, dove si chiama da fuori studiosi internazionali per aiutare ad aprire il sistema o anche dove si creano delle condizioni o delle agenzie per la ricerca, la polemica non è su chi le nomina, la polemica è sulla qualità di chi viene nominato. E’ chiaro che noi avremo due commissioni in cui avremo due professori ordinari italiani e un presidente straniero o italiano che lavora all’estero. Non ci sono canali standard per convincere il “top scholar” di Harvard a venire a darci una mano. Questi 25 saranno individuati direttamente dal ministro che ovviamente consulterà il sistema italiano. In Canada e in Catalogna fanno la stessa cosa da anni, attirando cervelli dall’estero. Il vertice del RSF, la grande agenzia per la ricerca statunitense, che dà tutti i finanziamenti
anche individuali alla ricerca, li nomina Barack Obama. Nessuno fa una polemica perché sono una nomina previdenziale. La polemica c’è se invece di candidare sulla linea chimica un futuro Premio Nobel, mi ci metti un finanziatore del Partito Democratico”.