Il Riformista

I riformisti disegnano nuove soluzioni, mentre gli altri non perdonano la loro egemonia

Vittorio Ferla
Democrazia/#riformismo

 Chi sono i riformisti? Che cosa si intende per riformismo?

I riformisti sono dei rompicoglioni.

Quando le cose vanno bene, sono le ultime persone che vuoi invitare a cena. Ma quando le cose vanno male, sono le prime persone a cui vuoi fare una telefonata.

Se tutti sognano, pensano che il paradiso terrestre sia dietro l’angolo, loro arrivano e ti spiegano che no: per carità, i sogni sono belli ed è bene farli, ma poi per far star meglio le persone bisogna rimboccarsi le maniche, fare quello che si può, con quello che si ha, dove si è. Di fronte a un problema, c’è chi pensa sempre di avere la ricetta in tasca. Oppure c’è chi si diverte a cercare il colpevole. I riformisti, invece, si arrovellano per disegnare soluzioni nuove.

 Perché il riformismo fatica ad attecchire in Italia sul piano delle regole, della mentalità e degli schieramenti politici? Quali le ragioni storiche e culturali alla base di questa fatica?

A dirla tutta, i riformisti hanno governato il nostro Paese per gran parte della storia repubblicana. La scuola pubblica di massa, il sistema sanitario nazionale, le pensioni, le regioni, il divorzio, il diritto all’aborto, lo statuto dei lavoratori, le partecipazioni statali le hanno fatte i riformisti. Certo, il più delle volte si sono nascosti dietro ad altre ideologie o narrazioni. Pensavano che, per via del livello di sviluppo e di capitale sociale dell’Italia, loro non avrebbero potuto ottenere un consenso maggioritario mettendoci la faccia. Dovevano nascondersi dietro a qualche forma di millenarismo.

I gruppi dirigenti del nostro Paese fanno fatica a ritenere gli italiani e le italiane pronte a sentirsi dire la verità. C’è un sottile filo rosso che unisce l’ambiguità togliattiana ai governi Monti e Draghi.

 Anche quando, per un breve periodo, si affermano una stagione o dei leader riformisti, dopo un po’ la sinistra tende a sopire e troncare, isolare e rimuovere. È un destino ineluttabile? Il dialogo tra gli uni e gli altri è impossibile?

Chi ha provato a fare una battaglia a viso aperto su una piattaforma esplicitamente riformista, da Craxi a Renzi, è stato sempre tacciato di arroganza. È un film già visto. I massimalisti, i radicali, gli estremisti possono essere arroganti. Ai riformisti, invece, non lo si perdona, perché devono stare al loro posto: grigi, moderati, concentrati sulle soluzioni tecniche, senza avere la sfrontatezza di lottare per l’egemonia culturale. La cultura politica italiana è impregnata di questi schemi culturali da oltre un secolo. Non è facile superarli.

 L’attuale segreteria del PD sceglie di sostenere i referendum della Cgil contro il Jobs Act che è una riforma del PD: è il ritorno del conservatorismo/populismo di sinistra che sia allea con quello sindacale?

Non darei un valore culturale alla scelta. Tanto per iniziare quel referendum è una fake news, non abroga affatto il Jobs act, casomai lo legittima visto che chiede l’abrogazione solo di uno dei suoi otto decreti. E quel decreto è già stato stravolto dalla Corte costituzionale, non ha più le caratteristiche che aveva col Jobs act. È una battaglia simbolica sul niente. Più che un segno di populismo, mi pare un segno di trasformismo.

La stragrande maggioranza degli attuali dirigenti del Pd quella riforma non l’ha solo votata, ma spiegata nelle Feste dell’Unità. Per carità, si può cambiare idea, ma demonizzare le idee di ieri senza spiegare quelle di oggi, non è buona politica. La verità è che criticare il periodo di Renzi viene facile. Per la riforma del Titolo V, la modifica dell’articolo 18 del governo Monti-Bersani, il superbonus al 110, l’improvvisazione del governo Conte o il taglio dei parlamentari, invece, nessuno sa fare autocritica. Quando i contenuti non contano, il trasformismo prospera.

 Restiamo al lavoro. Disoccupazione giovanile e femminile sono sfide cruciali per il nostro paese, ma sembrano fuori dall’agenda del PD: come si possono affrontare e risolvere?

La verità è che nel centrosinistra non c’è mai stata così tanta convergenza sulle cose da fare in tema di lavoro e stato sociale. Per questo qualcuno sente il bisogno di dividersi sul passato, perché sul futuro ci sarebbe troppa unità di vedute.

Tra le tante proposte ne cito due. Serve un reddito di formazione. Una forte garanzia del reddito per chi è appena entrato nel mondo del lavoro, per chi è stato licenziato o per chi vuole rimettersi in gioco. Una garanzia del reddito agganciata a servizi intensivi e personalizzati di orientamento, formazione e accompagnamento al lavoro. Dobbiamo costruire un sistema di formazione permanente di massa, o non saremo in grado di gestire i costi sociali dei cambiamenti che ci attendono.

E serve un pacchetto di interventi che sostengano la genitorialità condivisa e l’occupazione femminile, a partire da congedi di genitorialità perfettamente paritari e generosi. In un libro appena uscito per Feltrinelli, con Alessandra Minello, mettiamo in fila le misure che per noi servono a fare questa rivoluzione. Non a caso il libro s’intitola “Genitori alla pari. Tempo, lavoro, libertà”: perché da lì bisogna partire. Da un’idea di genitorialità condivisa. Da strumenti di welfare, come i congedi paritari e un tempo di base, che rendano prioritaria la libertà di tutti e di tutte.

 L’emancipazione delle persone – specie quelle più svantaggiate – dovrebbe essere l’obiettivo dei riformisti: come si raggiunge nell’attuale contesto storico, sociale, economico?

Il socialismo è portare avanti chi è nato indietro, diceva Nenni. Valeva ieri e vale oggi. E oggi significa soprattutto due cose. Una l’abbiamo già detta: costruire un sistema di formazione permanente di massa. Ma sul serio, non con qualche bando regionale. Quando hai un figlio o una figlia che compiono sei anni, sai che c’è una scuola dietro l’angolo, ti informi sulla qualità dei docenti e sulle opzioni didattiche. Lo stesso deve accadere quando perdi un lavoro o senti che le tue competenze non reggono il passo. Devi sapere che dietro l’angolo ci sono luoghi ben finanziati e monitorati nei risultati, dove ricevere formazione di qualità mentre qualcuno ti dà un reddito.

La seconda cosa sono politiche industriali che accompagnino il cambiamento tecnologico. Il mercato da solo non basta, rischia di produrre innovazione tecnologica che brucia lavoro invece che renderlo più produttivo. Servono politiche che indirizzino il cambiamento verso una crescita inclusiva, tecnologie che si fanno complementi e non sostituti del lavoro umano. Le politiche industriali restano un tabù per molti riformisti formatisi negli anni ’90. Ma anche noi dobbiamo fare autocritica e aggiornare i nostri paradigmi. Sennò sembriamo reduci del blairismo, più che eredi di Turati, Kuliscioff e Beveridge.

 Le riforme della Costituzione sono un tabù se le fa la destra. Ma così sembra che il passato divori il presente. Il conservatorismo istituzionale della sinistra è insuperabile?

La rinuncia a presentare una riforma istituzionale che sia allo stesso tempo ambiziosa e organica è una delle involuzioni culturali più preoccupanti rispetto alla storia del centrosinistra dagli anni ’90 in poi. Per non parlare dell’ipocrisia di chi dice che la Costituzione non si tocca, salvo averla cambiata due volte malamente, con la riforma del Titolo V e con il taglio dei parlamentari. Di cui, ripeto, pochi sentono il bisogno di scusarsi.

Gran parte dei nostri problemi nascono dal fatto che l’orizzonte di chi governa è troppo corto, dal fatto che le responsabilità istituzionali tra livelli di governo non sono chiaramente definite e dal fatto che maggioranza e opposizione hanno strumenti spuntati per fare il proprio lavoro. Per questo servirebbero riforme istituzionali profonde. Anche il premierato non dovrebbe essere un tabù, se fosse fatto in maniera meno pasticciata e con una legge elettorale a doppio turno.

 Dove si collocano i riformisti? Serve un polo terzo concepito ad hoc o devono essere il traino di un partito a vocazione maggioritaria?

I terzi poli hanno poco senso. Non vedo che riformismo ci possa essere se non costruiamo un’alternativa di governo credibile a Meloni, Salvini e Tajani. Nella scorsa legislatura, le forze di centrodestra non hanno quasi mai votato nello stesso modo sulla fiducia ai governi che si sono succeduti. Eppure, oggi governano insieme con un programma chiaro. Sbagliato, ma chiaro sulle scelte di fondo. Non si capisce perché il centrosinistra non possa fare lo stesso.

I riformisti, se ne sono capaci, devono mettere fantasia, concretezza e visione nel programma di governo che serve per costruire un’alternativa alla destra tradizionalista e sovranista. Tutto il resto è agitazionismo quando va bene, personalismi quando va male.

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