La Stampa

I vice di Trump e Harris e le prove di egemonia

Tommaso Nannicini
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Le scelte di J.D. Vance e Tim Walz come candidati alla vicepresidenza Usa continuano a far parlare di sé. E il motivo è che in entrambi i casi si è trattato di scelte irrituali. Di solito, chi si candida alla presidenza sceglie il vice o la vice con in testa uno di questi tre obiettivi. Primo: ci sono vice che ti servono per coccolare gli elettori indipendenti, quelli, sempre di meno, che stanno in mezzo ai due poli. Secondo: ci sono vice che possono farti vincere in Stati ritenuti in bilico, i cui grandi elettori decideranno chi diventerà presidente. Terzo: ci sono vice che possono aiutarti ad attrarre specifici gruppi etnici o religiosi. Né la scelta di Donald Trump né quella di Kamala Harris rispondono a queste motivazioni.
Se Trump avesse puntato agli elettori indipendenti, avrebbe scelto l’ex ambasciatrice Nikki Haley. Per i latinos, c’era Mark Rubio. Per gli afroamericani, Tim Scott. Invece, ha scelto J.D. Vance, un senatore dell’Ohio che non gli porterà nessuno Stato in bilico e che polarizza gli animi, essendo diventato negli anni una sorta di versione secchiona di Trump stesso (ha studiato legge a Yale e ha una maggiore passione per i dettagli delle politiche pubbliche). È un po’ come se Berlusconi avesse scelto come delfino uno che la pensava in tutto come lui, anche se aveva studiato alla Bocconi e raccontava meno barzellette.
Lo stesso vale per la scelta di Harris. Se avesse puntato a vincere uno Stato in bilico, avrebbe scelto il governatore della Pennsylvania, Josh Shapiro. Per gli indipendenti, c’era l’ex astronauta Mark Kelly, dell’Arizona e con una posizione restrittiva sull’immigrazione. Invece, ha scelto il governatore del Minnesota, Tim Walz, che è identificato con posizioni progressiste e governa uno Stato dove i democratici sono dati per vincenti.
Perché queste scelte? Sia Trump sia Harris hanno guardato più al futuro che alla tattica elettorale. E forse hanno fatto bene. Gli studi statistici pubblicati sulle principali riviste di scienza politica ci dicono che la scelta del vice o della vice ha effetti trascurabili sui risultati elettorali. Tanto vale pensare al dopo, allora, scommettendo su una figura che possa plasmare la traiettoria del proprio campo politico in futuro.
Nel 2016, Trump usò il populismo come trampolino elettorale. Oggi, vuole che diventi un’ideologia di governo. Non a caso ha scelto Vance quando pensava di vincere, perché Biden era ancora in pista. Il suo obiettivo è far diventare un movimento di protesta come il trumpismo, nato ai margini del campo repubblicano e costruito intorno a un culto della personalità, qualcosa di più solido, professionale, dotato di centri di ricerca e proposte concrete. Per costruire un sovranismo a stelle e strisce più competente e sostenibile.
Harris, dal canto suo, sa che la demografia gioca a favore dei democratici, grazie alle donne, agli afroamericani e ai latinos, ma che il loro elitismo e globalismo continuano a farli apparire come nemici alla parte più smarrita e impaurita dell’elettorato americano. Walz, con i suoi modi da politico della porta accanto, le serve a renderli più accessibili e concreti. Per costruire un progressismo popolare e con i piedi per terra.
Non è detto che questo tentativo, al pari di quello di Trump, avrà successo. Entrambi sono pensati in caso di vittoria e potrebbero tornare a radicalizzarsi con una sconfitta. Ma entrambi mutuano qualcosa dall’avversario: sono prove tecniche di convergenza politica nello stile, se non nelle proposte. Non solo negli Stati Uniti, anche in Europa, l’ondata populista degli anni ’10 sta esaurendo la propria spinta propulsiva. Sia chi l’ha cavalcata sia chi l’ha subita, dovrà porsi il problema di come ridefinire la propria identità in una nuova fase “postpopulista”. Dall’altra parte dell’Atlantico, la sfida è già iniziata, pensando non solo alle elezioni di novembre, ma all’egemonia politica nel prossimo decennio.

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