Linkiesta

Il dibattito sull’austerità dopo l’Excelgate

Tommaso Nannicini
Economia/#ricerca

I fatti sono (globalmente) noti. Tre economisti dell’Università del Massachusetts, Thomas Herndon, Michael Ash e Robert Pollin, (HAP) hanno scritto un paper per criticare un precedente lavoro empirico degli economisti di Harvard Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff (RR) sulla relazione tra debito pubblico e crescita. I capi d’accusa sono gravi: 1) un errore in una formula Excel; 2) selezione discrezionale dei paesi nel campione; 3) scelta di procedure non convenzionali per fare la media di paesi e anni diversi. Insomma: RR avrebbero truccato i conti per sostenere la tesi pro-austerità per cui un debito pubblico eccessivo frena la crescita economica.

La vulgata vuole che «la tesi di RR, secondo la quale un debito pubblico superiore al 90% è incompatibile con lo sviluppo, è risultata inficiata da errori matematici» (Giuliano Amato su Il Sole 24 Ore). Ma era davvero questa l’evidenza prima dell’Excelgate? E adesso è stata ribaltata dagli errori? Non proprio. Vale la pena tornarci sopra, perché la vicenda insegna qualcosa sia sul rapporto tra economisti e dibattito pubblico sia sulle politiche d’austerità.

I TRE CAPI D’ACCUSA CONTRO REINHART E ROGOFF
La prima accusa coglie nel segno: c’era un errore (come ammesso da RR su Financial Times e New York Times). In verità, anche sorvolando sull’uso di Excel, viene da chiedersi come sia possibile che non ti venga la voglia di controllare, dopo due anni in cui tutto il mondo parla di un tuo articolo e i tuoi studi successivi fanno apparire strano un certo numero. Ma non inferiamo troppo. Una svista può capitare a tutti (toccando ferro). Dallo snapshot di Excel, si nota che l’errore fa sparire il Belgio tra i paesi con debito sopra il 90 per cento. Di fatto, l’omissione di un solo paese cambia il messaggio della figura incriminata di RR (portando la crescita media nei paesi ad alto debito dal -0,1 al 2,2 per cento). Già questo la dice lunga sulla robustezza di questo tipo d’esercizi.

La seconda e la terza accusa di HAP, però, sono un po’ forzate. I paesi non inclusi nel paper di RR non erano, a quel momento, disponibili. E francamente c’è da credere agli autori, che hanno fatto uno sforzo enorme per raccogliere i dati e divulgarli in maniera trasparente (per esempio, in un secondo paper del 2012). I dati storici raccolti da RR sono incredibilmente ampi: è questo il loro maggiore contributo. Anche l’accusa di aver usato metodi non convenzionali per fare la media lascia il tempo che trova. Entrambi i metodi hanno senso.

L’EVIDENZA EMPIRICA PRIMA E DOPO L’EXCELGATE
Ma, al di là di tutto, che cosa è cambiato nella sostanza dei risultati? Poco o niente. L’evidenza empirica può essere riepilogata così. Primo: esiste una correlazione negativa tra accumulazione di debito pubblico e crescita (dove è alto il primo, è bassa la seconda). Secondo: non ci sono effetti soglia (cioè, la correlazione è osservabile un po’ a tutti i livelli di debito e non soltanto sopra il fantomatico 90 per cento). Terzo: questa correlazione non può essere assolutamente interpretata come un rapporto di causa-effetto (cioè, non si può dire che un paese cresca meno perché ha un debito più alto). Il bello è che questi tre punti erano noti anche prima dell’Excelgate.

HAP correggono un errore riguardo al primo punto, ma non lo stravolgono: la crescita media nei paesi ad alto debito è 2,2 per cento in HAP, contro la media (sbagliata) di -0,1 ma vicina alla mediana di 1,6 in RR. Tutti i numeri sono sempre al di sotto del 3 o 4 per cento dei paesi con debito più basso. Nel secondo paper di RR, i risultati su un campione più ampio dicono la stessa cosa. All’incirca, i paesi con alto debito crescono di un punto percentuale in meno all’anno rispetto agli altri (non poco, dato che la durata media degli episodi di debito elevato è di 23 anni). Sul secondo punto, HAP fanno vedere qualche evidenza in più sull’assenza di effetti soglia, ma il tetto del 90 per cento era poco robusto in partenza (casomai, la colpa di RR è di aver enfatizzato troppo una soglia che non era suffragata da nessun test statistico).

Il terzo punto è quello cruciale: i dati disponibili non permettono di dire che un alto debito pubblico sia la causa di minore crescita. Ma anche su questo niente di nuovo. E l’errore in Excel non c’entra niente. RR già lo dicevano, anche se si abbandonavano spesso a frasi che sembravano implicare il contrario. Il paper del 2012, comunque, si chiudeva con una frase esplicita: “questo articolo non deve essere interpretato come un manifesto a favore di una rapida riduzione del debito pubblico soltanto attraverso lo strumento dell’austerità fiscale in un ambiente con alta disoccupazione”. Insomma: in un convegno tra specialisti, nessun economista avrebbe mai sostenuto la tesi del rapporto causa-effetto in base a quei dati. Non solo per il fatto, riconosciuto da RR, che paesi in cui l’economia stagna possono accumulare più debito. Ma, soprattutto, per il fatto che svariati fattori possono condurre un paese sia a crescere meno sia ad accumulare debito, come la ricerca di rendite improduttive (si rilegga Mancur Olson: “Ascesa e declino delle nazioni”).

Implicitamente, che i risultati non fossero così rivoluzionari lo ammettevano gli stessi RR pubblicandoli sull’ “American Economic Review Papers & Proceedings” (un numero speciale in cui si pubblicano gli atti di una conferenza senza referaggio) e sul “Journal of Economic Perspectives” (una rivista che ospita articoli di rassegna). Se stai ad Harvard e produci una ricerca scientificamente robusta non la piazzi su queste riviste.

GLI ECONOMISTI E IL DIBATTITO PUBBLICO
Perché, allora, tutto questo rumore? Secondo Paul Krugman, RR avrebbero dovuto smentire pubblicamente i tanti ultras pro-austerità che strumentalizzavano i loro risultati. Ma chi è senza peccato scagli la prima pietra. Attendiamo gli strali di Krugman contro i tanti Landini in giro per il mondo che traducono la sua richiesta di politiche anti-cicliche con più spesa pubblica sempre e comunque. O contro i tanti politici italiani, greci e spagnoli che lo citano solo per non parlare delle politiche sbagliate che hanno trascinato i loro paesi vicino alla bancarotta. Gli stessi Pollin e Ash sul Financial Timescriticano le politiche di austerità facendo pensare che il loro studio provi qualcosa a riguardo, ma non è così.

Gli economisti dovrebbero quindi smettere di parlare di economia sui giornali (che poco si prestano alle sottigliezze dell’analisi scientifica) e rintanarsi in una torre d’avorio? Niente affatto. Ma, quando intervengono, dovrebbero distinguere le loro preferenze (la loro “ideologia” per dirla con Joan Robinson) dai risultati robusti sul piano scientifico. Per essere credibili non serve nascondere i propri giudizi personali, basta esplicitarli. L’Excelgate dovrebbe servire da insegnamento. C’è in gioco la reputazione della professione.

CHE COSA CI INSEGNA IL CASO ITALIANO
Nella sostanza, su due punti in molti sembrano d’accordo. Primo: serve gradualità perché rientrare troppo in fretta dal debito accumulato durante una pesante recessione può avere effetti controproducenti. Secondo: la gradualità è più complicata da gestire in paesi che avevano già accumulato molto debito prima della crisi e devono rifinanziarlo sui mercati internazionali. In generale, le politiche di risanamento non sono l’unica via d’uscita da un alto debito pubblico: inflazione, ristrutturazione o default parziale sono le alternative seguite nel corso della storia. Ma ognuna ha i suoi costi.

Se pensiamo all’Italia, il nostro paese è davvero poco credibile come pulpito anti-austerità. Nei dati di RR, insieme alla Grecia, siamo al primo posto per numero di episodi di alto debito, e nel secondo dopoguerra siamo il paese con l’episodio più lungo (25 anni, ancora in corso). Con questo pedigree, è difficile fare i paladini delle politiche anti-cicliche, che presuppongono deviazioni temporanee dal sentiero del rigore. Anzi: il nostro paese insegna che esiste un motivo tutto “keynesiano” per essere austeri. Proprio chi ha a cuore le politiche anti-cicliche o la spesa pubblica per fini redistributivi dovrebbe salvaguardare il rigore di bilancio in tempi normali: perché entrambe le opzioni sono fortemente ostacolate da un debito elevato e da un’alta spesa per interessi. I vincoli politici imposti dalla spesa in disavanzo sono presenti da tempo nella letteratura economica: per esempio, il modello diPersson e Svensson sul “Quarterly Journal of Economics” ruota intorno all’idea che governi conservatori dovrebbero fare più debito proprio per legare le mani ai futuri governi progressisti.

Il debito pubblico italiano affonda le sue radici negli anni ’60, quando sono partite politiche distributive a benefici concentrati e costi diffusi, la cui spesa in disavanzo è stata finanziata con la tassa d’inflazione prima e lasciando lievitare il debito dopo. Solo se dimostreremo di aver capito la lezione del passato avremo mano libera per fare le politiche suggerite da Krugman. Non esistono scorciatoie.

Per concludere, ai tre lettori che si sono spinti fino a quiconsegno due riflessioni. Prima: non fidiamoci troppo dei risultati scientifici pubblicati sui Papers & Proceedings (o, va da sé, su riviste con bassa reputazione scientifica). Seconda: non fidiamoci troppo di chi, dovendo scegliere uno strumento – per esempio, Stato o mercato, politiche espansive o restrittive, e così via – sceglie sempre lo stesso in più del 95 per cento dei casi, indipendentemente dal contesto sociale e istituzionale. Gatta ci cova.

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