In tempi di crisi, le statistiche economiche finiscono spesso per rimpiazzare i fondi di caffè degli indovini. Le scrutiamo con ansia appena escono. Bramiamo di scorgervi qualche segno di speranza. Ci disperiamo se non ve ne sono. È normale, e forse anche giusto, che sia così. Ma, al pari dei fondi di caffè, le proprietà divinatorie delle statistiche sono purtroppo limitate.
Ieri, l’Istat ha diffuso i dati su occupati e disoccupati aggiornati al mese di maggio. Rispetto ad aprile, gli occupati sono calati di 63mila unità. È in parte un contraccolpo dopo l’aumento di 131mila occupati registrato ad aprile, quando il combinato disposto di sgravi contributivi e contratto a tutele crescenti aveva prodotto i primi effetti positivi, favorendo anche una serie di assunzioni e trasformazioni che le imprese avevano deciso di ritardare in attesa delle nuove regole del mercato del lavoro. È un contraccolpo che ovviamente non fa piacere, ma ci può stare. Dall’entrata in vigore del Jobs Act, il tendenziale resta positivo: più 68mila occupati da marzo a maggio. Adesso, quello che dobbiamo augurarci è che questa tendenza continui e si consolidi nei prossimi mesi, senza preoccuparci di emulare ogni volta il picco congiunturale di aprile.
Per ora, questo augurio non può trovare conferme né nelle statistiche né nei fondi di caffè. Ma c’è già qualche dato che consente di nutrire fiducia, sia pure con tutte le cautele del caso. Tanto per cominciare, ci sono le storie in carne e ossa di quanti tornano ad avere un lavoro stabile. Alcuni, come Ludovico, operaio della Fca di Cassino, perché stanno per uscire dalla cassa integrazione. Altri, come sua moglie, perché sono stati assunti a tempo indeterminato, lasciandosi alle spalle una sfilza di (finte) collaborazioni autonome. La riduzione della cassa integrazione non aumenta il numero degli occupati, ma migliora la qualità della vita di chi lavora. Le trasformazioni a tempo indeterminato non sono occupazione aggiuntiva, ma chi nega che siano di per sé un fatto positivo deve spiegarlo a quanti potranno accendere un mutuo o avere tutele più forti per maternità e malattia proprio grazie a quelle trasformazioni.
L’ingegneria delle forme contrattuali, da sola, non crea nuovi posti di lavoro. Non è mai stato questo l’obiettivo del Jobs Act. Il suo (duplice) obiettivo era quello di favorire il lavoro stabile e di permettere all’occupazione di crescere appena la nostra economia si rimetterà in moto. Rispetto al primo obiettivo, i numeri danno già segnali incoraggianti. L’osservatorio Inps sul precariato mostra che il tempo indeterminato sta diventando la scelta naturale per le nuove assunzioni. Nei mesi da gennaio ad aprile, i contratti a tempo indeterminato in più (attivazioni meno cessazioni) sono stati 360mila, contro i 140mila del 2014 e i 240mila del 2013. Tuttavia, mentre negli anni passati questi saldi erano interamente spiegati dalle trasformazioni dal tempo determinato al tempo indeterminato, nel 2015 la metà del saldo è dovuta a nuove assunzioni stabili.
La priorità è adesso il secondo obiettivo: far crescere economia e occupazione. È vero che il lavoro lo creano le imprese e non i governi. Non c’è dubbio, tuttavia, che la prossima legge di stabilità rappresenterà un giro di boa importante per rafforzare la ripresa. Il governo sta realizzando riforme strutturali che erano state colpevolmente rinviate per decenni; riforme che potranno rilanciare investimenti e produttività nel lungo periodo. Ma non possiamo permetterci che, nel frattempo, la nostra economia arrivi stremata al traguardo. È per questo che servono misure congiunturali che diano ossigeno a famiglie e imprese da subito. Sgravi contributivi, Irap e 80 euro hanno dato un primo segnale: un segnale da confermare e da rafforzare.