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Il Jobs-act funziona lo dicono i numeri

Tommaso Nannicini
Lavoro/#jobs act

Ogni volta che l’Istat diffonde le proprie stime preliminari sul mercato del lavoro, ecco che – con la stessa puntualità del Festival di Sanremo – partono le polemiche e le strumentalizzazioni di chi si attacca a ogni minima variazione congiunturale per sparare contro il Jobs Act. Uno spreco di inchiostro e di meningi, francamente, meritevole di miglior causa. E visto che le strumentalizzazioni sono come le ciliegie, una tira l’altra, il vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio, ha pensato bene di aggiungere alle solite sparate contro le “leggi che piacciono solo alla Germania e alla Banca Centrale Europea” (concetto che dovrebbe spiegare alle centinaia di migliaia di precari e disoccupati che nel frattempo hanno trovato un lavoro stabile) una serie di strumentalizzazioni del tutto fuori luogo sul terremoto. Ma guardiamo ai numeri e non alle acrobazie logiche dei politicanti.

Le stime mensili sul mercato del lavoro pubblicate dall’Istat confermano l’efficacia del Jobs Act. Lo sbandierato (e ritwittato) calo degli occupati nel mese di luglio riguarda esclusivamente i lavoratori indipendenti (meno 68mila), mentre i contratti stabili hanno fatto registrare una leggera crescita (più 6mila). Crescita, tra l’altro, catturata da stime provvisorie, che negli ultimi mesi l’Istat ha rivisto costantemente al rialzo, tanto che proprio gli ultimi dati hanno rialzato gli occupati di giugno di qualcosa come 47mila unità in più.

In ogni caso, la flessione del lavoro indipendente non è solo un dato di luglio, ma una tendenza che riguarda tutto l’ultimo anno. Una tendenza senz’altro da monitorare, ma che può benissimo essere spiegata dal giro di vite sulle finte partite Iva e sulle finte collaborazioni introdotto dal governo Renzi. Non a caso nel 2015, rispetto all’anno precedente, è aumentato del 31% (più 35mila unità) il numero di partite Iva cessate e poi transitate nel lavoro dipendente. Era questa una delle architravi del Jobs Act: favorire le occupazioni stabili, rottamare il finto lavoro autonomo e, nello stesso tempo, rafforzare le tutele dei veri lavoratori autonomi. Tutti obiettivi di cui si parlava da anni senza fare niente. Ma se poi li raggiungi sul serio, è chiaro che la quantità del lavoro autonomo catturata dalle statistiche è destinata a ridursi. L’importante è che sia accompagnata da un aumento dei contratti permanenti e da una maggiore qualità e da tutele più forti per i (veri) lavoratori autonomi.

Nonostante il calo dei lavoratori indipendenti e a fronte di una ripresa economica ancora fragile, le tendenze occupazionali restano estremamente solide. Lo dimostra la media degli ultimi tre mesi degli occupati totali (pari a 22 milioni e 792mila unità), che è cresciuta di altre 9.500 unità rispetto al dato precedente. E lo dimostra il fatto che durante il governo Renzi l’aumento degli occupati è pari a 585mila unità, di cui 408mila a tempo indeterminato e 196mila a tempo determinato (mentre gli occupati indipendenti sono calati di 19mila unità). Se qualcuno due anni fa, in piena recessione, avesse annunciato la creazione di 600mila nuovi posti di lavoro sarebbe stato preso per un venditore di fumo. Ma ecco che poi è arrivato l’arrosto. La maggior parte di questo aumento occupazionale (intorno al 70%) è stata creata dall’attuazione del Jobs Act (marzo 2015) in poi, e questo dato sfiora l’80% se si considerano solo i contratti a tempo indeterminato (più 321mila dopo il Jobs Act, a fronte dei 408mila occupati stabili in più dall’avvio del governo Renzi a oggi).

Tutto bene, quindi? Direi di no: rimane molto da fare. La disoccupazione giovanile resta alta, la ripresa è ancora lenta e senza crescita non si creano posti di lavoro in maniera solida. Il Jobs Act non è stato pensato per creare occupazione indipendentemente dall’andamento dell’economia, ma per rendere i contratti permanenti la regola piuttosto che l’eccezione. E i dati ci dicono che, nonostante una ripresa debole anche per colpa delle incertezze del contesto internazionale, il nostro mercato del lavoro crea posti di lavoro. È un po’ come sul finire degli anni ’90, quando la nostra economia non cresceva ma le dinamiche occupazionali erano buone, anche grazie alle riforme del mercato del lavoro. La differenza è che allora si trattava in gran parte di lavori temporanei, adesso di lavori stabili. E non è una differenza da poco.

Ora, tutte le nostre energie devono spostarsi sulla crescita economica e sull’equità sociale, per dare risposte concrete a chi ha pagato i costi più alti della crisi economica. Competitività e produttività; equità e coesione sociale; capitale umano: ecco le tre architravi che dovranno continuare a orientare la politica economica dell’Italia a partire dalla prossima legge di bilancio, rafforzandosi a vicenda nello sforzo di aiutare la ripresa economica e di rafforzare gli andamenti occupazionali. In modo che tra un anno i numeri siano di nuovo più forti delle strumentalizzazioni.