Sì, avete capito bene: come ci ricorda il primo grafico (linea gialla), negli anni della “nave che va” e dei paninari, la disoccupazione giovanile era costantemente a due cifre. L’ultima rilevazione Istat stima il tasso di disoccupazione complessivo all’11,2%. Ma tassi di disoccupazione superiori al 10% li abbiamo sperimentati senza sosta per il lungo periodo che va dal 1985 al 2000 (linea grigia). Ritorno al passato, quindi? Non proprio. Alcune debolezze strutturali del nostro mercato del lavoro che le riforme degli anni Novanta avevano appena scalfito tornano a riaffiorare, ma accompagnate da problemi nuovi. A partire da una questione generazionale la cui gravità aumenta col passare del tempo e la cui vera natura non è stata ancora compresa.
Grafico 1 – Tasso di disoccupazione in Italia
Fonte: Istat
Se si guarda all’andamento dei tre principali indicatori della salute del mercato del lavoro – cioè, tasso di disoccupazione (quanti cercano lavoro?), tasso di occupazione (quanti lavorano?) e tasso di attività (quanti cercano lavoro o lavorano?) – per la fascia di età 15-24 si nota quanto segue:
1. I giovani sono i più colpiti dalla crisi. Il loro tasso di disoccupazione è balzato dal 20% al 30% dal 2007 a oggi. Per gli individui con più di 25 anni, invece, il tasso di disoccupazione è aumentato di “soli” 2 punti percentuali: dal 4,9% al 6,9 per cento.
2. Fin qui tutto noto. Meno noto è il fatto che a partire dal 2000 – quindi già prima della Grande Recessione – il tasso di occupazione (secondo grafico) e il tasso di attività (terzo grafico) sono scesi in maniera molto marcata (di 11,6 e 14,3 punti percentuali, rispettivamente) per i giovani dai 15 ai 24 anni, mentre lo stesso non è avvenuto per le fasce di età 25-65.
Grafico 2 – Tasso di occupazione in Italia
Fonte: Istat
Grafico 3 – Tasso di attività in Italia
Fonte: Istat
3. Infine, la quota di giovani con contratti a tempo determinato (quarto grafico) è passata all’incirca dal 30% al 50% nel periodo che va dal 2004 al 2011.
Grafico 4 – Proporzione di contratti a tempo determinato sul totale
Fonte: Istat
Pur essendoci delle differenze nei livelli tra aree geografiche, queste tendenze sono comuni a tutto il Paese. Il fatto che il declino dei tassi di attività e di occupazione preceda la crisi è un primo fattore d’allarme. Non è solo la crisi il problema. Ci sono debolezze strutturali che precedono la crisi e ci accompagneranno anche quando la crisi sarà passata.
Il secondo campanello d’allarme è costituito dal fatto che il declino del tasso di attività indica che i giovani non solo non lavorano, ma non cercano neanche lavoro. Cosa fanno allora? Un prima risposta è che un maggiore numero di giovani si dedica allo studio e si iscrive all’università: cosa positiva. Nel periodo 2001-2006 la percentuale di iscritti all’università è cresciuta dal 35,9% al 41.4% (Istat), anche se i dati rilasciati in questi giorni hanno fatto segnare una brusca inversione di tendenza con una riduzione degli iscritti. Tuttavia, anche prendendo per buoni i dati precedenti al calo degli iscritti, il decremento del tasso di attività sarebbe tre volte più grande (14,3%). Resta ancora una variazione del 10% da spiegare. Purtroppo è probabile che buona parte sia da attribuire all’aumento dei neet (Not in Education, Employment or Training), cioè dei giovani che non studiano, non lavorano e non fanno apprendistato. I dati Istat sono disponibili solo dal 2004 e non consentono di verificare cosa sia successo a cavallo del 2000. Tuttavia, danno un’idea sugli ordini di grandezza: la proporzione di neet si colloca intorno al 20% della popolazione tra i 15 ed i 29 anni a fronte di una media europea del 15 per cento.
Le riforme degli anni Novanta avevano scalfito debolezze strutturali che caratterizzavano il nostro mercato del lavoro anche in tempi di vacche grasse come gli anni Ottanta, sia pure scaricandone i costi solo sulle giovani generazioni. Ma allora si poteva ancora dire: meglio precari che disoccupati. Adesso, la crisi ha fatto riemergere le stesse debolezze di un tempo, con l’aggravante che i giovani continuano a pagare i costi della maggiore flessibilità in entrata e dell’equilibrio della spesa pensionistica. Verrebbe da dire: cornuti e mazziati. Meno di un terzo di loro è attivo. Solo il 20% lavora e di questi solo la metà a tempo indeterminato. Dei due terzi inattivi, poco più della metà studia. Il resto si pone in esilio volontario, senza prospettive. Proprio come il nostro Paese.
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